di Michele Brambilla
Cerchiamo di spiegare ai lettori perché la legge sulle intercettazioni non è un affare che riguarda solo noi giornalisti; ma che riguarda soprattutto loro, i lettori.
I fatti innanzitutto. Un anno fa - 11 giugno 2009 - la Camera ha approvato un disegno di legge del ministro Alfano che regolamenta l’utilizzo delle intercettazioni da parte dei magistrati e la possibilità di pubblicarle da parte dei giornali. La scorsa settimana in commissione Giustizia del Senato sono stati presentati dodici emendamenti che - riassumo grossolanamente - accolgono qualche istanza dei magistrati (che molto si sono lamentati per questa legge) e inaspriscono ulteriormente le sanzioni per giornali e giornalisti. Contro tutto ciò, oggi il sindacato dei giornalisti scende in piazza. Gli italiani storcono il naso di fronte alle proteste dei giornalisti, e i motivi sono semplici.
Primo, noi non godiamo di buona fama, da sempre: quando il giovane Mussolini teneva i primi comizi in Romagna, chi non era d’accordo con lui gli urlava, per zittirlo, «zurnalest», giornalista, che era sinonimo di contaballe. Secondo, troppe volte ci siamo riempiti la bocca di espressioni come «diritto di cronaca» e «libertà di stampa»: una tronfia retorica servita anche a coprire qualche nefandezza.
Pure questa volta, quindi, molti lettori penseranno che la protesta dei giornalisti è una protesta corporativa. Di bottega. Non hanno tutti i torti perché sulle intercettazioni abbiamo spesso dato, negli anni passati, il peggio di noi. Abbiamo pubblicato conversazioni private, anzi intime, allo scopo di solleticare i più bassi istinti, quando non di mettere alla gogna qualcuno. Storie di letto e di corna sono state messe in pagina con la foglia di fico del diritto di cronaca. Ben venga quindi - penseranno in molti - una legge che dia una bella regolata.
D’accordissimo. Ma che cosa prevedono il ddl Alfano e i dodici emendamenti? Innanzitutto diciamo ai lettori che in Italia informarsi sulle leggi in gestazione non è difficile: è impossibile, se non ti puoi permettere un avvocato che sta al tuo fianco, con i codici e chissà quante altre leggi precedenti in mano. Il testo completo del primo emendamento, ad esempio, è il seguente: «Sopprimere il comma 4. Conseguentemente, al comma 5, sopprimere il capoverso 2-bis». Che cosa vuol dire? Boh. Uno specialista della materia ci ha spiegato che con questo emendamento, di fatto, il contenuto delle intercettazioni non può essere pubblicato neanche per riassunto. Non è che la lettura del ddl sia più semplice. Ad esempio l’articolo 27, che fa riferimento all’articolo 25-octies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, specifica che «si applica all’ente la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a trecento quote». Anche qui: che cosa vorrà dire?
Arabo per tutti. Eppure introduce una novità rivoluzionaria. Vuol dire che d’ora in poi gli editori dei giornali saranno ritenuti corresponsabili dei giornalisti e, in caso di pubblicazione di intercettazioni, pagheranno ammende da 65.000 a 465.000 euro. Cifre da stroncare i bilanci di molti giornali, e che forse sarebbe stato meglio chiarire in euro anziché in «quote» (ma questo del linguaggio delle leggi è un problema generale di trasparenza che giriamo al ministro della Semplificazione).
Torniamo a noi. Tradotte in termini comprensibili, le novità principali della nuova legge in gestazione sono, per i giornali, queste: 1) fino all’udienza preliminare si può scrivere solo ciò che è contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare, nella quale non possono essere inserite le intercettazioni; 2) dopo il rinvio a giudizio o il prosciolgimento il giornalista può scrivere delle intercettazioni ma solo per riassunto, senza virgolettati; 3) delle trascrizioni integrali si potrà avere notizia solo durante il processo pubblico; 4) come detto, per la prima volta anche gli editori saranno considerati responsabili, e questo comporta che un editore, a seconda del proprio bilancio e del proprio interesse, potrà decidere se gli conviene far pubblicare una notizia oppure no. Insomma decide l’editore, non il direttore del giornale.
Di fronte a tutto questo sono stati evocati la censura e il fascismo. Iperboli che non aiutano a capire. Però non c’è dubbio che se passa questa legge potremo scrivere che tizio è stato arrestato per il tale reato, ma non in base a quali indizi (per quattro quinti, infatti, le indagini ormai sono fatte con le intercettazioni). Il dubbio di un possibile errore (o anche, perché no?, di un possibile arresto strumentale) resterà fin dopo l’udienza preliminare; e solo al processo pubblico conosceremo il contenuto delle intercettazioni, cioè le prove.
Si obietta che all’estero (in Francia e in America, ad esempio) la pubblicazione delle intercettazioni è sempre stata vietata. È vero. Ma è anche vero che in quei Paesi i processi pubblici cominciano in tre mesi, non in tre anni come da noi. Colpa della lentezza della magistratura? Sì, anche quello; così come è vero che i pm potrebbero fare pure indagini tradizionali, e non solo al telefono. Diciamo insomma che, così come noi giornalisti, anche i magistrati debbono fare un esame di coscienza.
Ma di fronte a tutto questo sarebbe stata auspicabile una legge che proibisse la pubblicazione di tutto ciò che non ha rilevanza penale, di ciò che può compromettere le indagini, di ciò che offende dignità personali. Ma questa legge vieta tutto, anche la pubblicazione per sintesi delle prove che hanno portato a un arresto. Delle inchieste della magistratura non è che non conosceremo più i coté pruriginosi: non conosceremo più quasi nulla. Ecco perché non è un problema dei giornalisti, ma di tutto il Paese.
I fatti innanzitutto. Un anno fa - 11 giugno 2009 - la Camera ha approvato un disegno di legge del ministro Alfano che regolamenta l’utilizzo delle intercettazioni da parte dei magistrati e la possibilità di pubblicarle da parte dei giornali. La scorsa settimana in commissione Giustizia del Senato sono stati presentati dodici emendamenti che - riassumo grossolanamente - accolgono qualche istanza dei magistrati (che molto si sono lamentati per questa legge) e inaspriscono ulteriormente le sanzioni per giornali e giornalisti. Contro tutto ciò, oggi il sindacato dei giornalisti scende in piazza. Gli italiani storcono il naso di fronte alle proteste dei giornalisti, e i motivi sono semplici.
Primo, noi non godiamo di buona fama, da sempre: quando il giovane Mussolini teneva i primi comizi in Romagna, chi non era d’accordo con lui gli urlava, per zittirlo, «zurnalest», giornalista, che era sinonimo di contaballe. Secondo, troppe volte ci siamo riempiti la bocca di espressioni come «diritto di cronaca» e «libertà di stampa»: una tronfia retorica servita anche a coprire qualche nefandezza.
Pure questa volta, quindi, molti lettori penseranno che la protesta dei giornalisti è una protesta corporativa. Di bottega. Non hanno tutti i torti perché sulle intercettazioni abbiamo spesso dato, negli anni passati, il peggio di noi. Abbiamo pubblicato conversazioni private, anzi intime, allo scopo di solleticare i più bassi istinti, quando non di mettere alla gogna qualcuno. Storie di letto e di corna sono state messe in pagina con la foglia di fico del diritto di cronaca. Ben venga quindi - penseranno in molti - una legge che dia una bella regolata.
D’accordissimo. Ma che cosa prevedono il ddl Alfano e i dodici emendamenti? Innanzitutto diciamo ai lettori che in Italia informarsi sulle leggi in gestazione non è difficile: è impossibile, se non ti puoi permettere un avvocato che sta al tuo fianco, con i codici e chissà quante altre leggi precedenti in mano. Il testo completo del primo emendamento, ad esempio, è il seguente: «Sopprimere il comma 4. Conseguentemente, al comma 5, sopprimere il capoverso 2-bis». Che cosa vuol dire? Boh. Uno specialista della materia ci ha spiegato che con questo emendamento, di fatto, il contenuto delle intercettazioni non può essere pubblicato neanche per riassunto. Non è che la lettura del ddl sia più semplice. Ad esempio l’articolo 27, che fa riferimento all’articolo 25-octies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, specifica che «si applica all’ente la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a trecento quote». Anche qui: che cosa vorrà dire?
Arabo per tutti. Eppure introduce una novità rivoluzionaria. Vuol dire che d’ora in poi gli editori dei giornali saranno ritenuti corresponsabili dei giornalisti e, in caso di pubblicazione di intercettazioni, pagheranno ammende da 65.000 a 465.000 euro. Cifre da stroncare i bilanci di molti giornali, e che forse sarebbe stato meglio chiarire in euro anziché in «quote» (ma questo del linguaggio delle leggi è un problema generale di trasparenza che giriamo al ministro della Semplificazione).
Torniamo a noi. Tradotte in termini comprensibili, le novità principali della nuova legge in gestazione sono, per i giornali, queste: 1) fino all’udienza preliminare si può scrivere solo ciò che è contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare, nella quale non possono essere inserite le intercettazioni; 2) dopo il rinvio a giudizio o il prosciolgimento il giornalista può scrivere delle intercettazioni ma solo per riassunto, senza virgolettati; 3) delle trascrizioni integrali si potrà avere notizia solo durante il processo pubblico; 4) come detto, per la prima volta anche gli editori saranno considerati responsabili, e questo comporta che un editore, a seconda del proprio bilancio e del proprio interesse, potrà decidere se gli conviene far pubblicare una notizia oppure no. Insomma decide l’editore, non il direttore del giornale.
Di fronte a tutto questo sono stati evocati la censura e il fascismo. Iperboli che non aiutano a capire. Però non c’è dubbio che se passa questa legge potremo scrivere che tizio è stato arrestato per il tale reato, ma non in base a quali indizi (per quattro quinti, infatti, le indagini ormai sono fatte con le intercettazioni). Il dubbio di un possibile errore (o anche, perché no?, di un possibile arresto strumentale) resterà fin dopo l’udienza preliminare; e solo al processo pubblico conosceremo il contenuto delle intercettazioni, cioè le prove.
Si obietta che all’estero (in Francia e in America, ad esempio) la pubblicazione delle intercettazioni è sempre stata vietata. È vero. Ma è anche vero che in quei Paesi i processi pubblici cominciano in tre mesi, non in tre anni come da noi. Colpa della lentezza della magistratura? Sì, anche quello; così come è vero che i pm potrebbero fare pure indagini tradizionali, e non solo al telefono. Diciamo insomma che, così come noi giornalisti, anche i magistrati debbono fare un esame di coscienza.
Ma di fronte a tutto questo sarebbe stata auspicabile una legge che proibisse la pubblicazione di tutto ciò che non ha rilevanza penale, di ciò che può compromettere le indagini, di ciò che offende dignità personali. Ma questa legge vieta tutto, anche la pubblicazione per sintesi delle prove che hanno portato a un arresto. Delle inchieste della magistratura non è che non conosceremo più i coté pruriginosi: non conosceremo più quasi nulla. Ecco perché non è un problema dei giornalisti, ma di tutto il Paese.
«La Stampa» del 28 aprile 2010
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