di Roberto Volpi
In una indagine di pochi anni fa, e che prendeva in esame le trasformazioni del matrimonio avvenute nel lungo periodo, l’Istat aveva scoperto che erano intervenuti tra gli altri, tra gli inizi degli anni duemila e trenta anni prima, curiosi quanto sostanziosi cambiamenti così riassumibili:
(a) l’accresciuta usanza, fino ad arrivare a interessare pressoché il 100 per cento dei matrimoni, di festeggiare le nozze con un ricevimento o pranzo nuziale
(b) l’accresciuto numero di invitati a questo ricevimento, che superava le cento persone nel 56 per cento dei matrimoni
(c) l’accresciuta quota di coppie che si recavano all’estero per il viaggio di nozze, salita decisamente a più di sette su dieci, quattro delle quali con mete extraeuropee.
Ci sono tutte le ragioni di credere che relativamente ai punti (b) e (c) l’accrescimento sia andato ulteriormente avanti tra i primi anni Duemila e oggi. Fatto si è che nei primi anni Settanta i matrimoni superavano quota 400 mila, mentre, pur con una popolazione di qualche milione in più, nei primi anni Duemila quel numero era sceso a 260-270 mila. Ed è ulteriormente sceso oggi sotto la soglia dei 250 mila. Con l’introduzione del divorzio (è da lì che si diparte, dati alla mano, la crisi dell’istituto del matrimonio) i matrimoni sono diventati al tempo stesso sempre meno numerosi e sempre più sfarzosi/pretenziosi. Non so se sia possibile stabilire una relazione di causa- effetto tra numerosità e pretenziosità dei matrimoni, ma un dato è certo: a sem- pre meno matrimoni è andato abbinandosi un sempre maggiore sfarzo degli stessi e chissà che lo sfarzo (e quindi il costo) non abbia, a forza di aumentare, contribuito la sua parte ad assestare un colpetto all’istituzione matrimoniale. Che non se la ripassa affatto bene. Affatto. Intanto con un indice di nuzialità appena sopra la soglia di 4 matrimoni annui ogni mille abitanti l’Italia è ormai consistentemente sotto la media Ue-15. Poi, con appena 3,6 di nuzialità, il nord Italia si viene connotando come una terra a rischio de-matrimonializzazione (hai voglia la Lega di recuperare le radici cattoliche). Quindi con l’aumento di cinque anni di età della donna al primo matrimonio, passata dai 25 ai 30 anni di media nel breve giro degli ultimi venti anni, quella italiana sta assumendo il comando delle donne che nel mondo si maritano meno e più tardi di tutte.
E infine, grazie anche a una contrazione ancora più cospicua dei primi matrimoni (ridotti a 212 mila), la famiglia italiana viene sempre più diradandosi per un verso e formandosi a età avanzate di donne e uomini per l’altro. Di fronte a questa realtà, paradossalmente assai poco conosciuta, o se conosciuta assai poco riflettuta, c’è chi non manca di far notare come tutto il carico della crisi che non accenna a passare sia però da mettersi in conto al matrimonio celebrato con rito religioso. Si fa notare, infatti, come ben 90 mila dei 246 mila matrimoni del 2008, pari a quasi il 37 per cento, siano matrimoni civili, proporzione che supera ormai il 40 per cento in tutte le regioni del centro-nord e che aumenta di anno in anno.
Ai supporter del matrimonio civile vorrei dire che anche per loro c’è ben poco di che stare allegri, sol che si vada a vedere un po’ meglio nei dati. Di quei 90 mila matrimoni, infatti, 30 mila sono con almeno uno sposo divorziato, e dunque per così dire obbligati al rito civile, e ben 32 mila con almeno uno sposo immigrato – matrimoni, questi ultimi, sui quali pesano etnie e fedi diverse da quella cattolica e anche una visibilità volutamente minore, come trattenuta quasi, di questo tipo di matrimoni. I matrimoni con rito civile davvero scelti non stanno avendo affatto tutto quel gran successo che si immagina.
La controprova? Nei primi matrimoni tra coniugi entrambi italiani il rito religioso prevale sul rito civile nella bella proporzione di quattro a uno, vale a dire che ogni cento di questi matrimoni 80 si celebrano, ancora oggi, in chiesa e soltanto 20 in comune. No, la crisi del matrimonio è profonda e generalizzata e si inscrive in quella più ampia difficoltà a fare famiglia oggi in Italia che testardamente, nonostante i dati contrari siano ormai più che espliciti, ci si ostina a considerare esclusivamente di tipo economico mentre è ancor prima di origine e consistenza culturali.
Nel frattempo che questa crisi si consuma, una caratteristica del matrimonio che prima divideva il paese ora lo sta, dal suo punto di vista, unificando: il regime della separazione dei beni tra i coniugi, che riguarda ormai più di sei matrimoni su dieci tanto al nord come al sud. Proprio quello che ci voleva. E’ infatti provato come “nelle separazioni associate a matrimoni di più breve durata prevalga la scelta della separazione dei beni” (Istat). Chi sceglie la comunione dei beni si separa di meno e si assicura mediamente un matrimonio che, anche quando si rompe, dura molto più a lungo. Cosicché l’unificazione del matrimonio italiano dalla Valle d’Aosta alla Sicilia all’insegna dell’accresciuta separazione dei beni è il perfetto viatico per una più sollecita fine tout court del matrimonio stesso.
«Il Foglio» del 22 aprile 2010
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