di Alessandro Barbero
Chi non vorrebbe vincere le elezioni con una maggioranza del 99,8%? Proprio questo fu l'esito del plebiscito che il 22 e 23 aprile 1860 ratificò l'unione della Savoia alla Francia di Napoleone III. Il corrispondente del «Times» di Londra ne parlò come della «più bassa e immorale farsa mai recitata nella storia delle nazioni» e «la peggior presa in giro del suffragio popolare che si sia mai vista».
E non c'è bisogno di essere degli esperti in scienze politiche per sapere che una percentuale del genere solleva qualche sospetto. Napoleone III aveva migliorato le sue tecniche in un decennio di regno: nel 1852, il plebiscito che lo aveva innalzato al trono imperiale aveva dato solo il 96,7% di voti favorevoli, anche se in certi casi i bollettini portavano il «sì» già stampato, mentre il «no» doveva essere aggiunto a mano. I plebisciti di annessione al regno d'Italia, celebrati nel 1860-61, non furono da meno: in Sicilia si ebbe il 98,5% di sì. Andò ancora meglio in Veneto nel 1866, quando sì toccò un memorabile 99,9%, con appena 69 voti contrari.
Viste con gli occhi di oggi (e anche con quelli degli inglesi di allora), queste cifre appaiono ridicole. Se la democrazia è quel sistema in cui può capitare che gli elettori, con sorpresa e costernazione di tutti, boccino il governo e lo costringano a cambiare politica, i plebisciti appartengono a un altro universo. Prima di consegnarli alla pattumiera della storia, però, bisognerà pur dire che a quell’epoca l’alternativa alla democrazia plebiscitaria non era solo la democrazia vera (e magari il «pericolo rosso», sbandierato da molti per spaventare gli elettori moderati). L'alternativa più concreta era ancora il diritto divino, la decisione dinastica presa sovranamente senza preoccuparsi neppure per la forma di riconoscere i diritti dei sudditi; e da questo punto di vista i plebisciti napoleonici e risorgimentali rappresentarono un indiscutibile progresso. Dopo secoli in cui i monarchi assoluti regnavano per grazia di Dio, si tornava finalmente al Medioevo: in cui, quando una città o perfino un villaggio sperduto passava sotto un nuovo signore, si chiedeva a tutti i capifamiglia di giurargli fedeltà. Non era previsto che si potesse rifiutare, ma la cerimonia sottintendeva che i sudditi erano uomini, e non pecore vendute da un padrone all'altro.
E' troppo semplice, dunque, liquidare i plebisciti come una truffa. Come sta emergendo dall’importante convegno che si tiene proprio in questi giorni all’Archivio di Stato di Torino, in cui si confrontano storici e giuristi italiani e francesi, quella stagione testimonia invece la relativa arretratezza di una cultura politica che faticava ad attrezzarsi per una democrazia vera, ma non poteva più accontentarsi del diritto divino. In quelle condizioni, il consenso plebiscitario per le decisioni prese dal governo, e magari per l’uomo forte che prometteva ordine e prosperità, rappresentava pur sempre una tappa sulla strada della democrazia; quella democrazia che oggi non è più limitata all’Inghilterra, e che dell’armamentario plebiscitario, giustamente, non saprebbe cosa farsi.
E non c'è bisogno di essere degli esperti in scienze politiche per sapere che una percentuale del genere solleva qualche sospetto. Napoleone III aveva migliorato le sue tecniche in un decennio di regno: nel 1852, il plebiscito che lo aveva innalzato al trono imperiale aveva dato solo il 96,7% di voti favorevoli, anche se in certi casi i bollettini portavano il «sì» già stampato, mentre il «no» doveva essere aggiunto a mano. I plebisciti di annessione al regno d'Italia, celebrati nel 1860-61, non furono da meno: in Sicilia si ebbe il 98,5% di sì. Andò ancora meglio in Veneto nel 1866, quando sì toccò un memorabile 99,9%, con appena 69 voti contrari.
Viste con gli occhi di oggi (e anche con quelli degli inglesi di allora), queste cifre appaiono ridicole. Se la democrazia è quel sistema in cui può capitare che gli elettori, con sorpresa e costernazione di tutti, boccino il governo e lo costringano a cambiare politica, i plebisciti appartengono a un altro universo. Prima di consegnarli alla pattumiera della storia, però, bisognerà pur dire che a quell’epoca l’alternativa alla democrazia plebiscitaria non era solo la democrazia vera (e magari il «pericolo rosso», sbandierato da molti per spaventare gli elettori moderati). L'alternativa più concreta era ancora il diritto divino, la decisione dinastica presa sovranamente senza preoccuparsi neppure per la forma di riconoscere i diritti dei sudditi; e da questo punto di vista i plebisciti napoleonici e risorgimentali rappresentarono un indiscutibile progresso. Dopo secoli in cui i monarchi assoluti regnavano per grazia di Dio, si tornava finalmente al Medioevo: in cui, quando una città o perfino un villaggio sperduto passava sotto un nuovo signore, si chiedeva a tutti i capifamiglia di giurargli fedeltà. Non era previsto che si potesse rifiutare, ma la cerimonia sottintendeva che i sudditi erano uomini, e non pecore vendute da un padrone all'altro.
E' troppo semplice, dunque, liquidare i plebisciti come una truffa. Come sta emergendo dall’importante convegno che si tiene proprio in questi giorni all’Archivio di Stato di Torino, in cui si confrontano storici e giuristi italiani e francesi, quella stagione testimonia invece la relativa arretratezza di una cultura politica che faticava ad attrezzarsi per una democrazia vera, ma non poteva più accontentarsi del diritto divino. In quelle condizioni, il consenso plebiscitario per le decisioni prese dal governo, e magari per l’uomo forte che prometteva ordine e prosperità, rappresentava pur sempre una tappa sulla strada della democrazia; quella democrazia che oggi non è più limitata all’Inghilterra, e che dell’armamentario plebiscitario, giustamente, non saprebbe cosa farsi.
«La Stampa» del 23 aprile 2010
Nessun commento:
Posta un commento