1945, la città di confine vede esplodere i suoi contrasti: slava e italiana, cattolica e laica, «rossa» e libera. Parla lo storico Pupo
di francesco Dal Mas
«Trieste è nostra, ma l’abbiamo perduta». La frase è attribuita a Togliatti, che l’avrebbe pronunciata a Mosca, prima del suo rientro in Italia nel marzo 1944. Lo ricorda Raoul Pupo, lo storico più accreditato delle vicende del confine orientale, in Trieste ’45 in libreria da oggi per Laterza (sarà presentato il 21 aprile alle 18 alla Scuola per interpreti di Trieste). «A riferirlo è un personaggio che Togliatti lo conosceva bene, Vincenzo Bianco, piemontese, comandante in Spagna, rappresentante del Pcd’I nel Komintern, tra i firmatari nel maggio 1943 del decreto di scioglimento dell’organizzazione, poi paracadutato in Jugoslavia presso il quartier generale di Tito. Le circostanze in cui ciò avviene lasciano spazio a qualche dubbio, tuttavia esprimono piuttosto bene l’animus con cui il gruppo dirigente del Pci affronta la crisi apertasi al confine orientale d’Italia. Molti sospettano l’estrema sinistra di cedimenti motivati ideologicamente nei confronti delle rivendicazioni jugoslave. E nel marzo 1944 alcuni esterrefatti antifascisti moderati giuliani si sentono dire dal vicepresidente del Clnai, il liberale Pizzoni, che nella migliore delle ipotesi nel dopoguerra Trieste sarebbe diventata una città libera».
Professore, dopo «Il lungo esodo», storia di un popolo in esilio, ora racconta la sua città, Trieste. Perché ha avvertito tale esigenza?
«Nel 1945 Trieste è un luogo di incroci. Due liberazioni – una da est e una da ovest – che si sovrappongono e generano la prima crisi internazionale del dopoguerra. Due resistenze, che collaborano fino a quando una non cerca di divorare l’altra. Due nazioni che sono cresciute separate nella medesima casa e hanno imparato ad odiarsi prima che a conoscersi. Due partiti comunisti che, obbedendo entrambi a Stalin, guardano in direzioni diverse, il parlamentarismo e la rivoluzione, e non si capiscono. Studiare gli incroci è uno dei modi migliori per aprire porte sulla storia – non di Trieste, ma dell’Italia e della Jugoslavia – senza restare prigionieri degli schemi del passato».
Trieste è stata sempre una città laica. Fino al 1945 i cattolici hanno contato poco nella sua storia. Nell’Ottocento i vescovi sono stati quasi tutti tedeschi o slavi. Poi tutto cambia. Che cosa accade?
«Tutto cambia principalmente con l’opera di due uomini, due sacerdoti. Il primo, il vescovo monsignor Santin, come molti altri presuli italiani dopo l’8 settembre 1943 esercita il ruolo di defensor civitatis diventando l’unico punto di riferimento credibile per una comunità italiana allo sbando. La medesima funzione continuerà a svolgerla ancora nel dopoguerra, portando la tradizionale classe dirigente laica della città ad affidarsi a lui. Il secondo, monsignor Edoardo Marzari, è l’unico sacerdote italiano che, proprio in quanto tale, diventa il presidente di un Cln. Attraverso la resistenza l’italianità giuliana, gravemente compromessa col fascismo, trova una nuova legittimità politica. È proprio sull’esperienza del Cln giuliano, perseguitato prima dai nazisti e poi dai comunisti jugoslavi, che si fonderà nel dopoguerra la costruzione di un sistema democratico».
Il tema delle foibe è sempre attuale. Anche di recente alcuni studiosi hanno sostenuto che le stragi di italiani sono solo un’invenzione propagandistica.
«Magari... È ovvio che tragedie di quelle dimensioni – si tratta di alcune migliaia di morti – negli anni delle più aspre lotte nazionali e politiche siano state utilizzate per difendere la causa dell’italianità, anche con parecchie esagerazioni.
Ma lo si è potuto fare perché la storia, purtroppo, era vera. Nel libro cerco di spiegare come le foibe rappresentino l’estrema propaggine occidentale dell’ondata di violenza che nella primavera del 1945 copre i territori jugoslavi, in cui il movimento di liberazione a guida comunista caccia i tedeschi ed assume il potere. I morti sono in tutta l’area molte decine di migliaia, fra coloro che hanno collaborato con gli occupatori o che, comunque, si oppongono al nuovo regime».
Chiariamo, dunque: perché ci sono stati gli infoibamenti?
«Nella Venezia Giulia le vittime sono ovviamente quasi tutti italiani, perché agli occhi dei partigiani di Tito costoro incarnano il fascismo e uno Stato nemico e occupatore. Non si tratta solo di punire i protagonisti delle precedenti ondate di violenza, quelle a danno degli slavi, purtroppo anch’esse ben vere, ma anche e soprattutto di distruggere il potere italiano, di eliminare i 'nemici del popolo' che vogliono opporsi all’annessione alla Jugoslavia e al comunismo, e di intimidire la popolazione affinché si pieghi al nuovo ordine».
Si può parlare di violenza di Stato?
«Sì. Una violenza di Stato strategicamente ben diversa da quella che nel dopoguerra insanguina anche molte regioni italiane».
Dopo più di 60 anni da quei lutti e quelle divisioni, è possibile arrivare a una memoria condivisa?
«Direi proprio di no».
Come no?
«La memoria è soggettiva e le tragedie personali non sono intescambiabili. Quello che invece credo fattibile, e quindi doveroso, è il rispetto di tutte le memorie, anche le più difficili. Si può fare anche un passo più in là, e cioè mirare alla 'purificazione delle memorie' nella consapevolezza che tutte presentano anche lati oscuri, come premessa alla riconciliazione delle persone e delle comunità. Questo è quanto da anni stanno cercando di fare le Chiese di confine, per il momento in Italia e Slovenia, con pazienza e umiltà».
Lungo tale strada si muovono anche gli storici dei Paesi confinanti?
«Qualche volta sì ed altre no. Ci sono alcuni studiosi, di varie generazioni, convinti ancora che il loro scopo sia quello di far trionfare la visione della storia elaborata dalla propria cultura nazionale, sbugiardando gli avversari di sempre. Altri invece credono che anche in questa parte di Europa sia venuto il tempo di scrivere una storia postnazionale, cioè capace di guardare al passato anche attraverso gli occhi degli altri. Non è facilissimo, ma ci stiamo provando».
Professore, dopo «Il lungo esodo», storia di un popolo in esilio, ora racconta la sua città, Trieste. Perché ha avvertito tale esigenza?
«Nel 1945 Trieste è un luogo di incroci. Due liberazioni – una da est e una da ovest – che si sovrappongono e generano la prima crisi internazionale del dopoguerra. Due resistenze, che collaborano fino a quando una non cerca di divorare l’altra. Due nazioni che sono cresciute separate nella medesima casa e hanno imparato ad odiarsi prima che a conoscersi. Due partiti comunisti che, obbedendo entrambi a Stalin, guardano in direzioni diverse, il parlamentarismo e la rivoluzione, e non si capiscono. Studiare gli incroci è uno dei modi migliori per aprire porte sulla storia – non di Trieste, ma dell’Italia e della Jugoslavia – senza restare prigionieri degli schemi del passato».
Trieste è stata sempre una città laica. Fino al 1945 i cattolici hanno contato poco nella sua storia. Nell’Ottocento i vescovi sono stati quasi tutti tedeschi o slavi. Poi tutto cambia. Che cosa accade?
«Tutto cambia principalmente con l’opera di due uomini, due sacerdoti. Il primo, il vescovo monsignor Santin, come molti altri presuli italiani dopo l’8 settembre 1943 esercita il ruolo di defensor civitatis diventando l’unico punto di riferimento credibile per una comunità italiana allo sbando. La medesima funzione continuerà a svolgerla ancora nel dopoguerra, portando la tradizionale classe dirigente laica della città ad affidarsi a lui. Il secondo, monsignor Edoardo Marzari, è l’unico sacerdote italiano che, proprio in quanto tale, diventa il presidente di un Cln. Attraverso la resistenza l’italianità giuliana, gravemente compromessa col fascismo, trova una nuova legittimità politica. È proprio sull’esperienza del Cln giuliano, perseguitato prima dai nazisti e poi dai comunisti jugoslavi, che si fonderà nel dopoguerra la costruzione di un sistema democratico».
Il tema delle foibe è sempre attuale. Anche di recente alcuni studiosi hanno sostenuto che le stragi di italiani sono solo un’invenzione propagandistica.
«Magari... È ovvio che tragedie di quelle dimensioni – si tratta di alcune migliaia di morti – negli anni delle più aspre lotte nazionali e politiche siano state utilizzate per difendere la causa dell’italianità, anche con parecchie esagerazioni.
Ma lo si è potuto fare perché la storia, purtroppo, era vera. Nel libro cerco di spiegare come le foibe rappresentino l’estrema propaggine occidentale dell’ondata di violenza che nella primavera del 1945 copre i territori jugoslavi, in cui il movimento di liberazione a guida comunista caccia i tedeschi ed assume il potere. I morti sono in tutta l’area molte decine di migliaia, fra coloro che hanno collaborato con gli occupatori o che, comunque, si oppongono al nuovo regime».
Chiariamo, dunque: perché ci sono stati gli infoibamenti?
«Nella Venezia Giulia le vittime sono ovviamente quasi tutti italiani, perché agli occhi dei partigiani di Tito costoro incarnano il fascismo e uno Stato nemico e occupatore. Non si tratta solo di punire i protagonisti delle precedenti ondate di violenza, quelle a danno degli slavi, purtroppo anch’esse ben vere, ma anche e soprattutto di distruggere il potere italiano, di eliminare i 'nemici del popolo' che vogliono opporsi all’annessione alla Jugoslavia e al comunismo, e di intimidire la popolazione affinché si pieghi al nuovo ordine».
Si può parlare di violenza di Stato?
«Sì. Una violenza di Stato strategicamente ben diversa da quella che nel dopoguerra insanguina anche molte regioni italiane».
Dopo più di 60 anni da quei lutti e quelle divisioni, è possibile arrivare a una memoria condivisa?
«Direi proprio di no».
Come no?
«La memoria è soggettiva e le tragedie personali non sono intescambiabili. Quello che invece credo fattibile, e quindi doveroso, è il rispetto di tutte le memorie, anche le più difficili. Si può fare anche un passo più in là, e cioè mirare alla 'purificazione delle memorie' nella consapevolezza che tutte presentano anche lati oscuri, come premessa alla riconciliazione delle persone e delle comunità. Questo è quanto da anni stanno cercando di fare le Chiese di confine, per il momento in Italia e Slovenia, con pazienza e umiltà».
Lungo tale strada si muovono anche gli storici dei Paesi confinanti?
«Qualche volta sì ed altre no. Ci sono alcuni studiosi, di varie generazioni, convinti ancora che il loro scopo sia quello di far trionfare la visione della storia elaborata dalla propria cultura nazionale, sbugiardando gli avversari di sempre. Altri invece credono che anche in questa parte di Europa sia venuto il tempo di scrivere una storia postnazionale, cioè capace di guardare al passato anche attraverso gli occhi degli altri. Non è facilissimo, ma ci stiamo provando».
«Avvenire» del 16 aprile 2010
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