di Maria Serena Palieri
Due veri autori, alla pari, di generazioni lontane, uno nel fiore dei suoi 38 anni e l’altro alle pericolose soglie degli 80»: Gian Carlo Ferretti (80 anni il prossimo 16 giugno) descrive così il lavoro di coppia con Stefano Guerriero che, insieme con l’apporto alle ricerche di «un gruppo di collaboratori ancora più freschi», è stato la leva per il suo nuovo libro. Un’opera, questa Storia dell’informazione letteraria in Italia dalla terza pagina a Internet 1925-2009 che è «la prima storia unitaria e sistematica di tutti i mezzi di informazione letteraria dal fascismo a oggi, terze pagine, riviste e blog, di recensiti e recensori, di forme diverse come recensioni, appunto, ma poi saggi, rassegne, interviste, schede, interventi polemici, e poi di anniversari e decessi illustri, premi, casi letterari, da Eco alla Tamaro a Dan Brown» elenca svelto Ferretti. Un’impresa che gli ha fatto tornare in mente l’immagine che usavano con Alberto Cadioli all’epoca in cui lavoravano insieme agli Editori Riuniti: «Ci sentivamo a volte come Dersu Uzala, il personaggio del film di Kurosawa, quando contemporaneamente deve fronteggiare la tempesta di neve, costruire la capanna e soccorrere il capo spedizione». Qui la tormenta, cioè il tormento, per quattro anni, è stato reperire le fonti, cartacei di riviste-meteora durate un solo numero come Latitudine di Giorgio Napolitano, Raffaele La Capria e Massimo Caprara nella Napoli degli Alleati, video di Approdi nelle scontrose teche Rai, ma anche «il mare della Rete, dove sparisce una scialuppa, ne salta fuori un’altra» spiega ancora Ferretti.
Questa Storia, osserviamo, riesce però alla fine in un obiettivo niente affatto facile: coniuga la ricchezza da enciclopedia con l’intenzionalità del saggio. Accanto alle grandi figure, poi, Luigi Russo ed Emilio Cecchi, Piero Gobetti e Giorgio Bassani, Franco Fortini e Cesare Garboli, valorizza recensori d’un tempo come Pancrazi, Cajumi, Ferrata, figure oggi dimenticate come Ottavio Cecchi o La Torre, difficili da catalogare come Fofi e Cherchi, sui generis perché non legate alla carta, come Dorfles e Sinibaldi.
Ora, se è un testo evidentemente utile per gli addetti ai lavori, può certo interessare un pubblico più ampio. Perché, parlando di «mediazione» tra industria editoriale e pubblico, riesce a gettare uno sguardo originale sul Paese, l’Italia dal 1925 del fascismo appena insediato all’oggi. Anche per singolari dettagli: ecco la rivista che nel ’38, in omaggio al «voi» imposto dal regime, cambia nome da Lei in Annabella, o la rubrica letteraria del Tg1 Benjamin, nome di eco «piacentiniana», che nel mercantile 2009 diventa Billy, in omaggio allo scaffale Ikea.
La scansione cronologica che seguite è questa: 1925-1945, 1945-1956, 1956-1968, 1968-1980, 1980-1992, 1992-2009. Sono, in maggioranza, date che hanno appunto un significato politico, prima che culturale. Perché?
«Solo due date ci sono costate fatica, l’80 e il ’92. Le altre ci si sono imposte con naturalezza. In origine in realtà la fase del fascismo non aveva vita propria. Ma, lavorando sullo spartiacque del 1945, ci siamo accorti che molte radici erano già lì: nomi che tornano, come Cecchi e Falqui, forme che riaffiorano come l’elzeviro, e processi che si compiono, come l’Omnibus del geniale fascista Longanesi da cui nasce il Mondo del geniale liberal-democratico Pannunzio, e altro ancora. Queste date sono la spia di un radicamento dell’informazione letteraria dentro la società e la politica. Il ’56 è l’anno del rapporto Kruscev, ma è anche quello in cui nasce Il Giorno, con le sue pagine sotto questo aspetto decisive, e intorno ci sono la nascita di Officina, del Contemporaneo, di Tempo presente, così come l’anti-vigilia del Gruppo 63. Stesso discorso per il ’68,quando le riviste politiche per un verso mortificano la letteratura, per un altro, come Quaderni piacentini, la recuperano in un contesto militante. Le riviste non a caso nascono in certe date: risentono del clima».
Una delle chiavi di lettura qui usate è la distinzione tra cultura élitaria e cultura bassa. Che in Italia permane finché non si sfocia nel mare indistinto: la cultura di massa. Unica eccezione il biennio ’44-’46, quando sembra che davvero tutto debba cambiare. Anche scrivendo una storia dell’informazione letteraria si scopre che l’Italia è una democrazia mai realizzata?
«A essere impietosi neppure in quel biennio le cose cambiarono davvero: nuove élites, operaie, sindacali, politiche, si sostituirono alle vecchie. Prendiamo il Politecnico: Vittorini, col suo garibaldinismo, pensava a un grande laboratorio di massa, eppure la rivista sarà bella, geniale, ma i lettori resteranno lettori. Se vai a vedere la rubrica delle lettere, chi ci trovi? Gianni Brera, Leonardo Sciascia, Edoarda Masi, già in forze alla future élites. Anche il Pci su questo terreno fallisce. Sull’Unità usciva il feuilleton a puntate, ma su Rinascita Togliatti pubblicava le poesie di Aragon in francese!».
Dalle élites all’oggi, cioè l’indistinto: i megastores dove tutte le vacche sono nere. Ma anche un parterre di lettori abituali passato dai 30.000 d’epoca fascista ai 3.000.000 di oggi. E i blog e le riviste come Carmilla.online dove gli autori dialogano direttamente tra loro e col pubblico. È meglio o peggio?
«Noi cerchiamo di dare conto, anche, della crescita, che c’è stata, nel numero di lettori e di lettori che si informano. Troppo pochi, comunque. Ed è per questo che le riviste sono in crisi. L’oggi è la caduta sia della critica militante che della critica di servizio, e il ruolo crescente di ciò che non è recensione: interviste, anticipazioni, schedine, pillole, stelline. È la famosa spettacolarizzazione. E il passaparola che è diventato quasi istituzionalizzato. È la Rete, dove cambia tutto. Sulla Rete siamo arrivati a un giudizio aperto, non ce la sentivamo di lodarla acriticamente. In Rete cade la mediazione critica. Una tesi è che lì il pubblico faccia un passo avanti, diventi esso stesso autore. Un’altra è che il lettore sia in balia di qualcosa d’altro. Per esempio degli editori, o degli stessi autori».
Nel 1925 uscivano 6.000 libri l’anno. Oggi sfioriamo i 60.000. La quantità uccide il ruolo del critico e del recensore? Soffoca la possibilità di scegliere, selezionare, porgere al pubblico?
«Certo».
Doris Lessing, nella sua autobiografia, annota il giro di boa di metà anni Ottanta. Quando capì di dover dare al pubblico non solo i suoi libri, ma se stessa: l’editore anziché spendere in pubblicità le chiese di spendersi girando come una madonna pellegrina per festival, interviste, salotti televisivi. Qual è il vostro giudizio sullo scrittore-personaggio?
«Lo scrittore-personaggio c’era già in D’Annunzio, forse il più grande personaggio del ’900. E Pasolini. Il personaggio nasce quando non conta più solo il testo, ma ciò che è extraletterario e gli sta intorno. Certo negli ultimi tempi ha avuto un rilievo molto diverso: basta pensare a Rushdie e Saviano».
Questa Storia, osserviamo, riesce però alla fine in un obiettivo niente affatto facile: coniuga la ricchezza da enciclopedia con l’intenzionalità del saggio. Accanto alle grandi figure, poi, Luigi Russo ed Emilio Cecchi, Piero Gobetti e Giorgio Bassani, Franco Fortini e Cesare Garboli, valorizza recensori d’un tempo come Pancrazi, Cajumi, Ferrata, figure oggi dimenticate come Ottavio Cecchi o La Torre, difficili da catalogare come Fofi e Cherchi, sui generis perché non legate alla carta, come Dorfles e Sinibaldi.
Ora, se è un testo evidentemente utile per gli addetti ai lavori, può certo interessare un pubblico più ampio. Perché, parlando di «mediazione» tra industria editoriale e pubblico, riesce a gettare uno sguardo originale sul Paese, l’Italia dal 1925 del fascismo appena insediato all’oggi. Anche per singolari dettagli: ecco la rivista che nel ’38, in omaggio al «voi» imposto dal regime, cambia nome da Lei in Annabella, o la rubrica letteraria del Tg1 Benjamin, nome di eco «piacentiniana», che nel mercantile 2009 diventa Billy, in omaggio allo scaffale Ikea.
La scansione cronologica che seguite è questa: 1925-1945, 1945-1956, 1956-1968, 1968-1980, 1980-1992, 1992-2009. Sono, in maggioranza, date che hanno appunto un significato politico, prima che culturale. Perché?
«Solo due date ci sono costate fatica, l’80 e il ’92. Le altre ci si sono imposte con naturalezza. In origine in realtà la fase del fascismo non aveva vita propria. Ma, lavorando sullo spartiacque del 1945, ci siamo accorti che molte radici erano già lì: nomi che tornano, come Cecchi e Falqui, forme che riaffiorano come l’elzeviro, e processi che si compiono, come l’Omnibus del geniale fascista Longanesi da cui nasce il Mondo del geniale liberal-democratico Pannunzio, e altro ancora. Queste date sono la spia di un radicamento dell’informazione letteraria dentro la società e la politica. Il ’56 è l’anno del rapporto Kruscev, ma è anche quello in cui nasce Il Giorno, con le sue pagine sotto questo aspetto decisive, e intorno ci sono la nascita di Officina, del Contemporaneo, di Tempo presente, così come l’anti-vigilia del Gruppo 63. Stesso discorso per il ’68,quando le riviste politiche per un verso mortificano la letteratura, per un altro, come Quaderni piacentini, la recuperano in un contesto militante. Le riviste non a caso nascono in certe date: risentono del clima».
Una delle chiavi di lettura qui usate è la distinzione tra cultura élitaria e cultura bassa. Che in Italia permane finché non si sfocia nel mare indistinto: la cultura di massa. Unica eccezione il biennio ’44-’46, quando sembra che davvero tutto debba cambiare. Anche scrivendo una storia dell’informazione letteraria si scopre che l’Italia è una democrazia mai realizzata?
«A essere impietosi neppure in quel biennio le cose cambiarono davvero: nuove élites, operaie, sindacali, politiche, si sostituirono alle vecchie. Prendiamo il Politecnico: Vittorini, col suo garibaldinismo, pensava a un grande laboratorio di massa, eppure la rivista sarà bella, geniale, ma i lettori resteranno lettori. Se vai a vedere la rubrica delle lettere, chi ci trovi? Gianni Brera, Leonardo Sciascia, Edoarda Masi, già in forze alla future élites. Anche il Pci su questo terreno fallisce. Sull’Unità usciva il feuilleton a puntate, ma su Rinascita Togliatti pubblicava le poesie di Aragon in francese!».
Dalle élites all’oggi, cioè l’indistinto: i megastores dove tutte le vacche sono nere. Ma anche un parterre di lettori abituali passato dai 30.000 d’epoca fascista ai 3.000.000 di oggi. E i blog e le riviste come Carmilla.online dove gli autori dialogano direttamente tra loro e col pubblico. È meglio o peggio?
«Noi cerchiamo di dare conto, anche, della crescita, che c’è stata, nel numero di lettori e di lettori che si informano. Troppo pochi, comunque. Ed è per questo che le riviste sono in crisi. L’oggi è la caduta sia della critica militante che della critica di servizio, e il ruolo crescente di ciò che non è recensione: interviste, anticipazioni, schedine, pillole, stelline. È la famosa spettacolarizzazione. E il passaparola che è diventato quasi istituzionalizzato. È la Rete, dove cambia tutto. Sulla Rete siamo arrivati a un giudizio aperto, non ce la sentivamo di lodarla acriticamente. In Rete cade la mediazione critica. Una tesi è che lì il pubblico faccia un passo avanti, diventi esso stesso autore. Un’altra è che il lettore sia in balia di qualcosa d’altro. Per esempio degli editori, o degli stessi autori».
Nel 1925 uscivano 6.000 libri l’anno. Oggi sfioriamo i 60.000. La quantità uccide il ruolo del critico e del recensore? Soffoca la possibilità di scegliere, selezionare, porgere al pubblico?
«Certo».
Doris Lessing, nella sua autobiografia, annota il giro di boa di metà anni Ottanta. Quando capì di dover dare al pubblico non solo i suoi libri, ma se stessa: l’editore anziché spendere in pubblicità le chiese di spendersi girando come una madonna pellegrina per festival, interviste, salotti televisivi. Qual è il vostro giudizio sullo scrittore-personaggio?
«Lo scrittore-personaggio c’era già in D’Annunzio, forse il più grande personaggio del ’900. E Pasolini. Il personaggio nasce quando non conta più solo il testo, ma ciò che è extraletterario e gli sta intorno. Certo negli ultimi tempi ha avuto un rilievo molto diverso: basta pensare a Rushdie e Saviano».
«L'Unità» del 14 aprile 2010
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