Bernard-Henri Lévy contro le critiche «ridicole» al maestro della psicanalisi
di Bernard-Henri Lévy
La polemica fra gli intellettuali dopo l’uscita del libro pieno di accuse all’autore dell'«Interpretazione dei sogni»
Michel Onfray si lamenta di ricevere critiche senza essere letto? Ebbene, l’ho quindi letto. L’ho fatto sforzandomi di mettere da parte, per quanto possibile, i vecchi cameratismi, le amicizie comuni, come anche la circostanza — ma questo era evidente — che entrambi siamo pubblicati dallo stesso editore. A dir la verità, sono uscito da questa lettura ancora più costernato di quanto lasciassero presagire le recensioni di cui, come tutti, ero venuto a conoscenza. Non che per me, come invece per altri, l’«idolo» Freud sia intoccabile: da Foucault a Deleuze, a Guattari e ad altri ancora, molti se la sono presa con lui e io, pur non essendo d’accordo, non ho mai negato che abbiano fatto avanzare il dibattito. E nemmeno sono il risentimento anti-freudiano, la collera, addirittura l’odio, come ho letto qua e là, a suscitare il mio disagio alla lettura del libro Crépuscule d’une idole.
L’affabulation freudienne (Grasset): si fanno grandi libri con la collera! E che un autore contemporaneo mescoli i propri affetti con quelli di un glorioso predecessore, che si misuri con lui, che faccia i conti con la sua opera in un pamphlet che, nell’ardore dello scontro, apporta argomenti o chiarimenti nuovi è, in sé, qualcosa di piuttosto sano. Del resto, Onfray l’ha fatto spesso, altrove, e con vero talento. No, non è questo. Quel che infastidisce nel Crépuscule d’une idole è di essere banale, riduttivo, puerile, pedante, talvolta al limite del ridicolo, ispirato da ipotesi complottistiche assurde quanto pericolose; e di adottare — il che è forse la cosa più grave — il famoso «punto di vista del cameriere», di cui nessuno ignora, a partire da Hegel, che raramente sia la persona più adatta a giudicare un grand’uomo o, peggio ancora, una grande opera... Banale: come unico esempio, cito la piccola serie di libri (Zwang, Debray-Ritzen, René Pommier) ai quali Onfray ha l’onestà di rendere omaggio, oltre ad altri testi, alla fine del volume, che già difendevano la tesi di un Freud corruttore dei costumi e foriero di decadenza.
Riduttivo: ci vuole un bel fegato per sopportare, senza ridere o senza spaventarsi, l’interpretazione quasi poliziesca che Onfray dà del bel principio di Nietzsche, che pure conosce meglio di chiunque altro, secondo cui una filosofia è sempre una biografia criptata o mascherata (grosso modo: se Freud inventa il complesso di Edipo è per dissimulare i pensieri pieni di rancore che nutre nei confronti del suo gentile papà e per riciclare le turpi pulsioni che prova verso sua mamma). Puerile: il rimpianto di non aver trovato, nelle «seimila pagine» delle opere complete di Freud, la «schietta critica del capitalismo» che avrebbe riempito di soddisfazione Michel Onfray, creatore dell’università popolare di Caen. Pedante: le pagine in cui Onfray si chiede con gravità quali debiti inconfessabili il fondatore della psicanalisi avrebbe contratto, ma senza volerlo riconoscere, verso Antifone di Atene, Artemidoro, Empedocle o verso l’Aristofane del Simposio di Platone. Ridicolo: è la pagina in cui, dopo oscure considerazioni sul probabile ricorso di Freud all’onanismo, poi un non meno curioso tuffo nei registri degli alberghi, «la maggior parte lussuosi», dove il viennese avrebbe protetto, per anni, i suoi amori colpevoli con la cognata, Onfray, trascinato da uno slancio da poliziotto della Buoncostume, finisce con il sospettarlo di aver messo incinta la suddetta cognata che, all’epoca, era giunta a un età in cui questo tipo di lieto evento si verifica, salvo nella Bibbia, molto raramente.
Il complotto: come nel Codice da Vinci (ma la psicanalisi, secondo Onfray, non è forse l’equivalente di una religione?), il complotto è l’immagine vagheggiata di giganteschi «container» di archivi sotterrati, in particolare, nelle cantine della Biblioteca del Congresso a Washington, alle cui porte veglierebbero milizie di templari, freudiani cupidi, feroci, astuti come il loro venerato maestro. Infine, il punto di vista del cameriere: è il metodo, sempre bizzarro, che consiste nel partire dalle presunte piccole debolezze dell’uomo (l’abitudine freudiana di scegliere egli stesso — chissà perché! — il nome di battesimo dei figli «sulla base della propria mitologia personale»), dalle sue non meno presunte stranezze (sete di gloria, ciclotimia, aritmie cardiache, tabagismo, umore oscillante, piccole prestazioni sessuali, paura dei treni: non invento nulla, questo catalogo di «tare» si trova nel libro); eventualmente dai suoi errori (come la dedica a Mussolini, da sempre nota, ma che Onfray sembra scoprire e che, estratta dal contesto, lo fa sprofondare in uno stato di grande frenesia) per dedurne la non validità della teoria nel suo insieme. Onfray raggiunge il colmo quando, alla fine del libro, ricorre addirittura al testo di Paula Fichtl, cioè ai ricordi di colei che fu la cameriera, per cinquant’anni, della famiglia Freud e poi dello stesso Sigmund, per denunciare le relazioni dell’autore di Mosè e il monoteismo con il fascismo austriaco. Tutto questo è desolante. Mi riesce penoso, in tutti i sensi del termine, ritrovare in tale tessuto di banalità, più stupide che malvagie, l’autore di libri — fra gli altri Il ventre dei filosofi (Rizzoli, 1989) — che vent’anni fa mi erano parsi così promettenti. La psicanalisi, che ha visto ben altro, si rimetterà. Quanto a Michel Onfray, ne sono meno sicuro.
L’affabulation freudienne (Grasset): si fanno grandi libri con la collera! E che un autore contemporaneo mescoli i propri affetti con quelli di un glorioso predecessore, che si misuri con lui, che faccia i conti con la sua opera in un pamphlet che, nell’ardore dello scontro, apporta argomenti o chiarimenti nuovi è, in sé, qualcosa di piuttosto sano. Del resto, Onfray l’ha fatto spesso, altrove, e con vero talento. No, non è questo. Quel che infastidisce nel Crépuscule d’une idole è di essere banale, riduttivo, puerile, pedante, talvolta al limite del ridicolo, ispirato da ipotesi complottistiche assurde quanto pericolose; e di adottare — il che è forse la cosa più grave — il famoso «punto di vista del cameriere», di cui nessuno ignora, a partire da Hegel, che raramente sia la persona più adatta a giudicare un grand’uomo o, peggio ancora, una grande opera... Banale: come unico esempio, cito la piccola serie di libri (Zwang, Debray-Ritzen, René Pommier) ai quali Onfray ha l’onestà di rendere omaggio, oltre ad altri testi, alla fine del volume, che già difendevano la tesi di un Freud corruttore dei costumi e foriero di decadenza.
Riduttivo: ci vuole un bel fegato per sopportare, senza ridere o senza spaventarsi, l’interpretazione quasi poliziesca che Onfray dà del bel principio di Nietzsche, che pure conosce meglio di chiunque altro, secondo cui una filosofia è sempre una biografia criptata o mascherata (grosso modo: se Freud inventa il complesso di Edipo è per dissimulare i pensieri pieni di rancore che nutre nei confronti del suo gentile papà e per riciclare le turpi pulsioni che prova verso sua mamma). Puerile: il rimpianto di non aver trovato, nelle «seimila pagine» delle opere complete di Freud, la «schietta critica del capitalismo» che avrebbe riempito di soddisfazione Michel Onfray, creatore dell’università popolare di Caen. Pedante: le pagine in cui Onfray si chiede con gravità quali debiti inconfessabili il fondatore della psicanalisi avrebbe contratto, ma senza volerlo riconoscere, verso Antifone di Atene, Artemidoro, Empedocle o verso l’Aristofane del Simposio di Platone. Ridicolo: è la pagina in cui, dopo oscure considerazioni sul probabile ricorso di Freud all’onanismo, poi un non meno curioso tuffo nei registri degli alberghi, «la maggior parte lussuosi», dove il viennese avrebbe protetto, per anni, i suoi amori colpevoli con la cognata, Onfray, trascinato da uno slancio da poliziotto della Buoncostume, finisce con il sospettarlo di aver messo incinta la suddetta cognata che, all’epoca, era giunta a un età in cui questo tipo di lieto evento si verifica, salvo nella Bibbia, molto raramente.
Il complotto: come nel Codice da Vinci (ma la psicanalisi, secondo Onfray, non è forse l’equivalente di una religione?), il complotto è l’immagine vagheggiata di giganteschi «container» di archivi sotterrati, in particolare, nelle cantine della Biblioteca del Congresso a Washington, alle cui porte veglierebbero milizie di templari, freudiani cupidi, feroci, astuti come il loro venerato maestro. Infine, il punto di vista del cameriere: è il metodo, sempre bizzarro, che consiste nel partire dalle presunte piccole debolezze dell’uomo (l’abitudine freudiana di scegliere egli stesso — chissà perché! — il nome di battesimo dei figli «sulla base della propria mitologia personale»), dalle sue non meno presunte stranezze (sete di gloria, ciclotimia, aritmie cardiache, tabagismo, umore oscillante, piccole prestazioni sessuali, paura dei treni: non invento nulla, questo catalogo di «tare» si trova nel libro); eventualmente dai suoi errori (come la dedica a Mussolini, da sempre nota, ma che Onfray sembra scoprire e che, estratta dal contesto, lo fa sprofondare in uno stato di grande frenesia) per dedurne la non validità della teoria nel suo insieme. Onfray raggiunge il colmo quando, alla fine del libro, ricorre addirittura al testo di Paula Fichtl, cioè ai ricordi di colei che fu la cameriera, per cinquant’anni, della famiglia Freud e poi dello stesso Sigmund, per denunciare le relazioni dell’autore di Mosè e il monoteismo con il fascismo austriaco. Tutto questo è desolante. Mi riesce penoso, in tutti i sensi del termine, ritrovare in tale tessuto di banalità, più stupide che malvagie, l’autore di libri — fra gli altri Il ventre dei filosofi (Rizzoli, 1989) — che vent’anni fa mi erano parsi così promettenti. La psicanalisi, che ha visto ben altro, si rimetterà. Quanto a Michel Onfray, ne sono meno sicuro.
(traduzione di Daniela Maggioni)
«Corriere della Sera» del 29 aprile 2010
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