16 aprile 2010

Non ammette forzature il linguaggio del buon diritto

La sentenza della corte
di Francesco D'Agostino
Grazie alla Corte Costituzionale, il tentativo di introdurre nel nostro ordinamento il riconoscimento giuri­dico delle coppie omosessuali, sfrut­tando in modo capzioso il dettato di alcuni articoli della Costituzione, è fal­lito. Non è vero che le coppie omoses­suali vadano fatte rientrare nel novero delle formazioni sociali tutelate dal­l’art. 2; non è vero che si incrina il prin­cipio d’eguaglianza, proclamato nel­l’art. 3, negando le nozze ai gay; non è vero che si possa leggere il testo del­l’art. 29, come se il riferimento alla fa­miglia avesse una valenza plurale (cioè come se esistessero diversi modelli di famiglia, tutti parimenti meritevoli di attenzione da parte del legislatore).
Hanno assolutamente torto quindi, in buona sostanza, quegli omosessuali che affermano di essere discriminati perché la legge non concede loro di sposare il partner; la discriminazione non esiste, perché l’esperienza della coppia omosessuale può anche avere un forte rilievo psicologico, affettivo e sociale, ma non per questo possiede un rilievo giuridico, perché non crea famiglia, non attiva cioè quei vincoli interpersonali e intergenerazionali che giustificano quella regolamentazione giuridica del rapporto eterosessuale che chiamiamo ' matrimonio'.
Vengono così confutate le opinioni di coloro che percepiscono un conflitto tra la normativa italiana in tema di ma­trimonio e famiglia e le indicazioni normative europee, che siamo vinco­lati a rispettare; vengono così dichia­rate inconsistenti le opinioni di tutti quei giuristi ( né pochi né privi di pre­stigio) che da anni cercano di convin­cere l’opinione pubblica che bisogna dare una lettura ' progressista' del te­sto costituzionale, identificando il pro­gressismo col libertarismo; vengono respinti i tentativi di abusare del lin­guaggio e del lessico dei diritti, per far ottenere riconoscimento giuridico a ciò che non lo merita.
Sappiamo che la battaglia sul matri­monio tra gay continuerà; ma adesso, dopo la pronuncia della Corte, possia­mo sperare che venga condotta con mezzi intellettualmente più onesti di quelli fino ad ora utilizzati.
Tutto bene, dunque? Forse sì, forse no: da alcune indicazioni ufficiose ( dato che nel momento in cui scrivo non si ha ancora il testo del dispositivo della sentenza) sembra che i giudici della Consulta abbiano sostenuto che qual­siasi decisione in tema di matrimonio omosessuale spetti esclusivamente al­la volontà esplicita e positiva del legi­slatore ( e che quindi non possa essere ottenuta in via obliqua, come hanno cercato di fare i ricorrenti, peraltro so­noramente sconfitti).
Se fosse davvero così, se la Corte a­vesse riconosciuto che è nella discre­zionalità del potere politico modella­re il matrimonio non nelle sue confi­gurazioni storicamente contingenti, ma nella sua struttura, avrebbe com­messo un errore. Il matrimonio non è una invenzione dello Stato e va da que­sto rispettato nella sua identità di vin­colo eterosessuale e generazionale. Guai se ci lasciamo indurre a pensare che il legislatore possa manipolare i­stituzioni antropologiche fondamen­tali, fino al punto da renderle irrico­noscibili. Si dirà: ma non è proprio questo che è avvenuto nella Spagna di Zapatero, col riconoscimento del ma­trimonio gay? Sì, è avvenuto proprio questo; è avvenuto che la legge abbia umiliato il diritto e la giustizia ed ab­bia istituzionalizzato il torto. L’inter­vento della Consulta ha impedito che un analogo torto venisse istituziona­lizzato anche in Italia.
Diciamole grazie. E mentre le diciamo grazie, ricordiamole che la sua altissi­ma funzione consiste nell’ essere non solo la custode della Costituzione, ma ancor più e ancor prima la custode del buon diritto.
«Avvenire» del 15 aprile 2010

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