di Antonio Scurati
Una nube ci ha imprigionati, una nube ci renderà liberi. Siamo cresciuti sotto cieli malsani, percorsi da nubi venefiche. Alzando gli occhi al cielo, abbiamo imparato più a diffidare che a pregare, più a temere che a sperare. Dall’alto - come dal basso, del resto - non c’era da attendersi nulla di buono.
In principio, a incombere sul nostro futuro, fu la nube atomica, quella fungiforme che si levò sopra Hiroshima il 6 agosto del 1945. Dopo di allora, una lunga serie di nubi si sono addensate all’orizzonte delle nostre vite minacciando olocausti ambientali, estinzioni planetarie, sindromi respiratorie. Procedendo a memoria d’uomo, trovo la prime nube tossica della mia vita nei ricordi d’infanzia. Era l’estate del 1976 e alle porte di Milano, nella cittadina di Seveso, scoppiava il reattore di una fabbrica chimica. Un miasma si stendeva sul territorio circostante come una nebbia autunnale. Ma puzzava. Era diossina. Prima caddero gli insetti stecchiti, poi stramazzarono le rondini, poi i cani impazzirono, poi le mucche levarono muggiti strazianti, infine, toccò ai nocchieri dell’arca. «Ci avevano detto che non esisteva alcun pericolo», dichiareranno gli abitanti della zona evacuati con 15 giorni di ritardo.
Esattamente dieci anni più tardi, il 26 di aprile del 1986, un altro disastro vaporoso, un’altra evacuazione tardiva. Questa volta la nube era composta di materiali radioattivi fuoriusciti dal reattore di una centrale nucleare nella remota località di Cernobil, ai confini tra Bielorussia ed Ucraina. Veniva di lontano ma giunse fino a noi. Avevo diciassette anni allora e, con la spavalderia della gioventù, assieme a un compagno di sbronze, la sfidammo addormentandoci ubriachi a Venezia sotto l’ala di bronzo del leone ai piedi del monumento a Manin proprio nella notte in cui i telegiornali ne annunciavano l’arrivo sulle nostre teste. La baldanza, l’incoscienza, non ci preservò, però, da una gran quantità di altre nubi, tutte più o meno maligne: gas di scarico, cortine fumogene, nubi di smog, nubi d’informazione e di disinformazione, vapori di benzina e vapori di nulla.
Siamo cresciuti così, nelle nostre città del benessere: sottoposti a un cielo gravato da miasmi, foriero di pestilenze vaporose, dove tutto è prodigio o funesto presagio. Proprio come nelle antiche città delle tragedie greche. Per la mia generazione, il privilegio di respirare liberi, a pieni polmoni, non è mai stato un diritto naturale, una gioia senza condizioni. Per noi, figli dell’estremo progresso, anche l’aria, soprattutto l’aria, è condizionata.
Eppure, guardando oggi le immagini di questa massa calda di gas formata da anidridi, idrogeni e vapori acquei, guardando i raggi del sole che, cosparsi di ceneri e aerosol, danno ai tramonti nordici colorazioni più intense, guardando dal satellite la scia marroncina stendersi sull’Europa, come sbavando da un vulcano islandese, guardando, soprattutto, la mappa del traffico aereo che si va cancellando da Nord a Sud, da Ovest a Est, immaginando questa nube boreale muoversi leggera a cinquemila metri d’altezza su cieli deserti, sorge in noi una chimera di quiete.
Certo, siamo consapevoli del grave danno economico, della crisi del traffico aereo, dei gravi rischi d’intossicazione, eppure si fa strada, irresistibile, una fantasia di azzeramento e rinascita. Fantastichiamo che, per un istante, lasciandoci tutti a terra, liberando i cieli sopra le nostre teste, la nube possa riportarci quel senso perduto della vita come qualcosa che può ricominciare da zero.
E’ la cosa di cui avremmo, forse, più bisogno. Una nube che faccia piazza pulita, dopo tante, troppe nubi che hanno ammorbato le nostre esistenze di asmatici immaginari.
In principio, a incombere sul nostro futuro, fu la nube atomica, quella fungiforme che si levò sopra Hiroshima il 6 agosto del 1945. Dopo di allora, una lunga serie di nubi si sono addensate all’orizzonte delle nostre vite minacciando olocausti ambientali, estinzioni planetarie, sindromi respiratorie. Procedendo a memoria d’uomo, trovo la prime nube tossica della mia vita nei ricordi d’infanzia. Era l’estate del 1976 e alle porte di Milano, nella cittadina di Seveso, scoppiava il reattore di una fabbrica chimica. Un miasma si stendeva sul territorio circostante come una nebbia autunnale. Ma puzzava. Era diossina. Prima caddero gli insetti stecchiti, poi stramazzarono le rondini, poi i cani impazzirono, poi le mucche levarono muggiti strazianti, infine, toccò ai nocchieri dell’arca. «Ci avevano detto che non esisteva alcun pericolo», dichiareranno gli abitanti della zona evacuati con 15 giorni di ritardo.
Esattamente dieci anni più tardi, il 26 di aprile del 1986, un altro disastro vaporoso, un’altra evacuazione tardiva. Questa volta la nube era composta di materiali radioattivi fuoriusciti dal reattore di una centrale nucleare nella remota località di Cernobil, ai confini tra Bielorussia ed Ucraina. Veniva di lontano ma giunse fino a noi. Avevo diciassette anni allora e, con la spavalderia della gioventù, assieme a un compagno di sbronze, la sfidammo addormentandoci ubriachi a Venezia sotto l’ala di bronzo del leone ai piedi del monumento a Manin proprio nella notte in cui i telegiornali ne annunciavano l’arrivo sulle nostre teste. La baldanza, l’incoscienza, non ci preservò, però, da una gran quantità di altre nubi, tutte più o meno maligne: gas di scarico, cortine fumogene, nubi di smog, nubi d’informazione e di disinformazione, vapori di benzina e vapori di nulla.
Siamo cresciuti così, nelle nostre città del benessere: sottoposti a un cielo gravato da miasmi, foriero di pestilenze vaporose, dove tutto è prodigio o funesto presagio. Proprio come nelle antiche città delle tragedie greche. Per la mia generazione, il privilegio di respirare liberi, a pieni polmoni, non è mai stato un diritto naturale, una gioia senza condizioni. Per noi, figli dell’estremo progresso, anche l’aria, soprattutto l’aria, è condizionata.
Eppure, guardando oggi le immagini di questa massa calda di gas formata da anidridi, idrogeni e vapori acquei, guardando i raggi del sole che, cosparsi di ceneri e aerosol, danno ai tramonti nordici colorazioni più intense, guardando dal satellite la scia marroncina stendersi sull’Europa, come sbavando da un vulcano islandese, guardando, soprattutto, la mappa del traffico aereo che si va cancellando da Nord a Sud, da Ovest a Est, immaginando questa nube boreale muoversi leggera a cinquemila metri d’altezza su cieli deserti, sorge in noi una chimera di quiete.
Certo, siamo consapevoli del grave danno economico, della crisi del traffico aereo, dei gravi rischi d’intossicazione, eppure si fa strada, irresistibile, una fantasia di azzeramento e rinascita. Fantastichiamo che, per un istante, lasciandoci tutti a terra, liberando i cieli sopra le nostre teste, la nube possa riportarci quel senso perduto della vita come qualcosa che può ricominciare da zero.
E’ la cosa di cui avremmo, forse, più bisogno. Una nube che faccia piazza pulita, dopo tante, troppe nubi che hanno ammorbato le nostre esistenze di asmatici immaginari.
«La Stampa» del 18 aprile 2010
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