07 aprile 2010

I pregiudizi sulla «società incivile»

Il voto dei Piccoli
di Dario Di Vico
Davvero si può spiegare il successo della Lega come il frutto di un sapiente incastro di escamotage fiscali e concessioni clientelari, come sostiene appassionatamente l’economista Tito Boeri sulla «Repubblica» di domenica? Qualcuno davvero pensa che il consenso che le piccole imprese e le partite Iva hanno riversato sulle liste del Carroccio si possa motivare con i benefici che avrebbero ricevuto da «trasferimenti occulti di cui non si ha traccia» (e non si capisce dunque come se ne abbia notizia)? Quindi sociologi e giornalisti che si sono arrovellati per capire il funzionamento della macchina politica di Umberto Bossi hanno perso tempo.
La soluzione era facile facile: il Carroccio vince perché ha creato una greppia del Nord. Sia chiaro, e va detto con il massimo di onestà, fare i conti con i fenomeni politici e sociali dell’Italia 2010 non è facile, si lavora «dentro» una crisi di cui non conosciamo gli esiti, si rischia di continuo il contropiede e non bisogna mai pensare di poter catalogare tutti i comportamenti sociali con un unico registro. Ma tentare di spiegare i mutamenti di un Paese con una teoria delle «mance elettorali» è un esercizio che non porta lontano, si finisce solo per piegare la realtà al proprio credo accademico.
Sul fronte della piccola impresa gli ultimi 10 mesi sono stati densissimi. Abbiamo visto nascere associazioni spontanee come «Imprese che resistono» e «i Contadini del tessile», a Torino e Firenze sono stati organizzati per la prima volta cortei di strada, nel Varesotto si è andati avanti al ritmo di un’assemblea ogni due settimane, le organizzazioni degli artigiani e dei commercianti — i cinque del club di Capranica — hanno deciso di rompere gli indugi e unificare la loro rappresentanza. L’unico partito politico che ha capito cosa stesse capitando ed è corso ai ripari è stata la Lega, aiutata dal fatto che l’epicentro del protagonismo dei Piccoli fosse nelle sue terre d’elezione. Gli esponenti del Carroccio sapevano di dover fare i conti con un’enorme contraddizione: la propria base voleva la riforma fiscale subito e il governo, nella persona del nordista Giulio Tremonti, sosteneva invece che i tempi non fossero maturi. Dopo che Gianni Letta aveva annunciato all’assemblea della Cna l’imminente riduzione dell’Irap chi se non il ministro dell’Economia aveva convinto Silvio Berlusconi a fare marcia indietro?
Per capire quanto la Lega fosse preoccupata per questa contraddizione bastava in questi mesi seguire gli interventi pubblici e le contorsioni dei vari Calderoli, Giorgetti o Garavaglia, costretti a difendere la logica dell’odiata Maastricht e a perorare lo slittamento di qualsiasi taglio delle tasse. Dovendo caricarsi questo handicap la Lega ha pensato di giocare altre carte. Una mossa-chiave è stata spingere perché prima delle elezioni fosse approvata la legge sulla tutela del made in Italy, una norma sottoposta ora al vaglio delle autorità di Bruxelles, ma che ha avuto un alto valore simbolico grazie al suo promoter, Marco Reguzzoni, abile nel farne una bandiera leghista. Anche Prato per la Lega è diventato un simbolo. Le amministrazioni comunali rosse avevano per anni e anni sottovalutato la crescita del sommerso cinese in Toscana.
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha giocato in contropiede, è andato a Prato, ha rafforzato i blitz nei laboratori e ha costretto l’ambasciatore cinese in Italia a far buon viso a cattivo gioco. Di esempi così se ne potrebbero fare diversi (basta analizzare la campagna di Luca Zaia dall’hamburger McItaly agli Ogm) ma la sostanza non cambierebbe. La Lega ha capito per tempo che il mondo dei Piccoli era in rapido mutamento, che stava per nascere una nuova rappresentanza politico-sindacale che nel medio periodo avrebbe intaccato il suo monopolio e bisognava dunque rispondere per tempo accentuando i toni della propaganda politica. L’ha fatto e ha avuto ragione anche perché il Pdl si è via via allontanato dalla sua base sociale e il Pd non è mai entrato in partita. Anche in Veneto dove ha candidato Giuseppe Bortolussi, cantore delle partite Iva, il risultato è stato modesto. La sinistra in Italia è uno spazio culturale, non un’offerta politica.
La Lega, dunque, non è stata premiata perché ha presentato un’exit strategy dalla crisi, tutt’altro. Si è esibita come partito antropologico, capace di ascoltare e di trasformare le istanze del suo popolo in un racconto collettivo, in una proposta identitaria. Con la globalizzazione — è la tesi leghista — la modernità è come se avesse operato un’inversione a U, non marcia più a braccetto con lo sviluppo, anzi lo minaccia. Bisogna dunque rallentarla con ogni mezzo, proteggere le comunità, salvaguardare l’iniziativa individuale e ogni tipo di tradizione che può fare da argine, inclusa quella religiosa. L’Italia, dunque, come un grande museo no global. Tutto ciò scalda i cuori ma non è un programma per uscire dalla crisi e infatti i leghisti glissano non solo sulla riforma fiscale.
Sono tiepidi persino sulle aggregazioni e le reti di impresa, sanno poco o niente su cosa sta avvenendo con la bolla delle partite Iva diventate in parte lavoro dipendente mascherato, sul terziario balbettano e sono totalmente all’oscuro del contributo che può venire dal mondo delle professioni. Ma questo dibattito post-elettorale non ci parla solo della capacità politica della Lega e della paradossale debolezza programmatica, ci racconta anche dei ritardi delle nostre élite, forse le più spocchiose del G8 e le più disancorate dalla realtà. Visto che il voto ha smentito le loro tesi, ora hanno preso a sostenere che la società del Nord «è incivile» o addirittura assistita grazie alla Cassa integrazione in deroga. Ma non sanno che i tempi di pagamento della pubblica amministrazione si sono allungati all’inverosimile (con un record di 700 giorni!) e le amministrazioni sono debitrici nei confronti delle imprese per una cifra stimata in 60 miliardi? Che cosa avrebbero dovuto fare gli imprenditori dei distretti per sperare di non finire nelle liste nere compilate dai campioni del politicamente corretto?
La «società incivile» ha resistito alla crisi, non ha ridotto il personale, in qualche caso ha pagato con la vita il proprio impegno, ha dato vita a una partecipazione sindacale e associativa che non si vedeva da tempo, ora si muove per aggregare le aziende creando delle reti e intanto si batte per essere presente sui mercati emergenti. Se non vivono sul mercato loro, non so chi in Italia si possa vantare di farlo. E poi se le nostre élite erano così preoccupate del degrado civile del Paese perché nessuno di loro si è mai indignato quando in Toscana, nella civilissima Toscana, i cinesi si sono liberamente organizzati sfruttando come schiavi i loro connazionali?
«Corriere della Sera» del 7 aprile 2010

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