10 aprile 2010

Corea del Nord, inferno rosso

Esce in Usa la raccolta dei reportage di Barbara Demick, la giornalista che ha bucato la cortina della dittatura di Kim Jong-il
di Massimo Introvigne
La Corea del Nord è il peggiore Paese del mondo dal punto di vista dei diritti umani. Su ventitré milioni di abitanti conta duecentomila prigionieri politici in campi 'di rieducazione' da cui di rado si esce vivi.
Almeno la metà, centomila, ci è finita perché sorpresa a praticare una qualche forma di religione. È permesso solo il culto messianico dell’attuale 'caro leader' Kim Jong-il e del padre Kim il-Sung (1912-1994), un vero e proprio nuovo movimento religioso su base comunista. Più di metà dei bambini muoiono prima di diventare adulti: 51,34%, la più alta percentuale del mondo. Da quando Kim Jong-il ha assunto la presidenza, i morti per fame sono intorno ai quattro milioni, in un Paese che non sarebbe privo di risorse naturali – ne ha perfino di più della ricca Corea del Sud – ma è gestito da un regime comunista inetto e paranoico. Il poco che si riesce a produrre è venduto per sostenere spese militari fra le più alte del mondo e mantenere il più grande esercito, in proporzione al numero dei cittadini, dell’orbe terracqueo.
Della Corea del Nord si sa pochissimo. Chi la visita è sempre accompagnato da due guide che si sorvegliano a vicenda, a vedere quasi solo quartieri della capitale Pyongyang costruiti a uso e consumo degli stranieri. Il velo è stato squarciato, da diversi anni, dagli articoli di una coraggiosa giornalista mondo buio, dove oltre all’illuminazione notturna è vietato internet, sono vietati i telefoni cellulari, la radio e la televisione sono piombate sui soli canali del regime, i giornali danno notizia quasi solo dei discorsi degli esponenti del partito – molti nordcoreani non conoscono ancora oggi i fatti dell’11 settembre 2001 – e a un certo punto si è pensato di vietare perfino gli orologi, anche se questi stanno cautamente ricomparendo.
L’elemento che domina le storie della Demick è la fame. La maggioranza dei familiari dei profughi che ha incontrato è morta di fame. Da scene di cannibalismo alla prostituzione di donne di ogni età per assicurarsi anche solo un pugno di riso dai militari o dai funzionari che ce l’hanno, il racconto è agghiacciante.
Non meno impressionante è la repressione: si rischia il campo di rieducazione e talora la pena di morte se si sorride a una battuta sul regime, del Los Angeles Times, Barbara Demick, premiati dall’organizzazione internazionale di giornalisti Overseas Press Club come i migliori testi al mondo nel campo dei diritti umani e ora raccolti in un volume, Nothing to Envy. Ordinary Lives in North Korea (Nulla da invidiare. Vite ordinarie in Corea del Nord, Spiegel & Grau, New York 2009). La Demick è stata più volte in Corea del Nord, ma ammette che non è da questi viaggi – con le solite due guardie del corpo – che ha capito come stanno le cose. È nelle regioni della Cina che confinano con la Corea del Nord dove arrivano i profughi, e nei quartieri di Seul dove vivono i fuggitivi dal Nord, che la giornalista ha potuto raccogliere una serie di storie terribili.
Il libro parte da un’esperienza che confesso di avere fatto anch’io. Per chi la sorvola in aereo la Corea del Nord è l’unico Paese di cui si vedono i confini. A Ovest e a Est c’è il mare, ma a Nord c’è la Cina e a Sud la Corea del Sud, che di notte brulicano di mille luci. La Corea del Nord rimane un 'buco nero', senza illuminazione di notte, salvo un puntino che indica la capitale Pyongyang o meglio il quartiere dove vivono il 'caro leader' e gli altri gerarchi del regime. Un non si piange al ricordo di Kim il­Sung, e soprattutto se ci s’interessa alla religione. Anche avere avuto un padre o un nonno cristiano porta a essere considerati di 'sangue impuro', cittadini di serie B per sempre.
Molti nordcoreani che non sanno nulla del mondo esterno ripetono una canzone obbligatoria secondo cui non hanno 'nulla da invidiare'.
Credono che altrove si muoia di fame come e peggio che nel loro Paese e che davvero il 'caro leader' faccia il possibile per loro.
Negli ultimi anni alcuni si procurano cellulari o radio clandestine con cui ricevono notizie dall’estero. Se si fanno scoprire, rischiamo la pena di morte; ma se sopravvivono la fuga diventa lo scopo della vita. Se riescono a fuggire in Cina quasi solo le Chiese e comunità cristiane li aiutano – in genere passando dalla Mongolia, il cui governo è disposto a dare una mano – a raggiungere la Corea del Sud. Dove la vita non è facile: ma la fede, che invano il governo nordcoreano ha cercato di estirpare totalmente, aiuta molti a cominciare una vita nuova, lontano dagli orrori di un regime che incredibilmente trova ancora in Occidente qualche difensore e ammiratore.
«Avvenire» del 10 aprile 2010

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