Nel 1979 Giuseppe Prezzolini tenne a Lugano, città dove viveva, una conferenza sull'identità italiana. Eccone il testo, pubblicato per la prima volta. Più che profetiche, quelle parole sono attualissime
Un inedito di Giuseppe Prezzolini
L’Italia non è romana: l’Italia è romana quanto la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Romania; cioè a dire un Paese che ha derivato la sua forza da un’altra espressione, che è l’individuo, e questa nozione dell’individualismo italiano viene da uno dei grandi svizzeri, il Burckhardt, che ha scritto mi pare nel 1850 un grande libro sulla Rinascenza, in cui l’elemento fondamentale è l’individualismo degli italiani.
L’individualismo ha fatto sì che l’Italia non si è mai potuta costituire in nazione.
E si è costituita in nazione per influsso straniero.
Era un grande uomo questo Burckhardt: questo libro ancora oggi dice qualche cosa. Dopo oltre cento anni è un libro che dice qualche cosa: questo libro dice che gli italiani sono di natura indipendente, ognuno vuole fare per conto proprio, ognuno vuole essere separato dall’altro, ognuno vuole essere «capo», soprattutto (ilarità). Basta un piccolo gruppo ed egli (l’italiano, ndr) vuole essere il padrone, per dominare gli altri.
Non è vero che gli stranieri hanno portato la dominazione straniera in Italia: essa fu dovuta a Ludovico il Moro che chiamò i francesi: prima essa non esisteva.
Esisteva che cosa? Una separazione di comuni.
Quali sono le grandi creazioni politiche dell’Italia? La prima è il comune. Il comune è una cosa straordinaria: dal buio del Medioevo, dal buio della fine dell’impero romano, dalla confusione, dal disordine sorgono qua e là in Italia dei piccoli centri che si chiamano città. A un certo momento hanno il diritto di chiamarsi «città»: Modena, Parma, Piacenza, Lucca, Pisa, Firenze.
Ognuna cerca di avere dal potere di allora, dall’imperatore, dal Papa, il diritto di essere uno Stato. E questi Stati si fanno la guerra, per secoli, fino che uno non inghiotte l’altro, quando può.
La mia Siena fu conquistata da Firenze dopo trecento anni di lotte e, nell’ultimo stadio, i difensori di Siena andarono in fondo al territorio del comune, a Montalcino, e difesero ancora per cinque anni l’indipendenza della loro Siena che non esisteva più.
Chi ha evidenziato questa importanza della città nella storia italiana, non solo nella storia politica, ma nella storia morale del popolo italiano, fu una persona che è stata presso di voi vent’anni e, nonostante che fosse cittadino di Milano, ebbe anche delle cariche cittadine - perché allora la Svizzera permetteva a degli stranieri di avere delle cariche pubbliche -: Carlo Cattaneo, il quale partecipò alle vostre polemiche locali, com’era lui attaccabrighe, rivoluzionario e quindi anche con un grande ingegno, ma quasi sconosciuto in Italia.
L’Italia non ha mai accettato Cattaneo per la semplice ragione che Cattaneo era propagatore del concetto che il migliore Paese, la migliore amministrazione, il migliore sistema politico è quello della Confederazione, quello che aveva visto qui in Svizzera. Lo propose all’Italia, ma l’Italia gli prepose Mazzini, che voleva l’unità.
Perché? Perché per Mazzini la politica dipendeva da Dio, cioè da un concetto di unità universale.
Ciò che era vero per gli italiani, doveva essere vero per i giapponesi, per i lapponi, per gli argentini, per qualunque altro Paese.
Il concetto di un governo generale, uguale per tutti, è un concetto mazziniano: non è un concetto di Cattaneo.
Cattaneo è stato un apostolo, invano - ed anche un grande scrittore per conto mio - della amministrazione locale. Ed infatti, quando si parla con gli italiani (quando dico italiani, tutti siete italiani qua, parlando italiano intendo; questa è la «Svizzera italiana», non credo di dire un’enormità, vero? Siete italiani anche voi: non politicamente, ma almeno linguisticamente), questi italiani non si sono mai rassegnati a quello che gli è venuto dal di fuori.
Questo Risorgimento è stato un vestito straordinario, un vestito non comune, messo sopra delle persone che non lo potevano portare.
Oggi si vede che cosa è accaduto con il Risorgimento.
L’Italia attuale è una triste cosa... triste: per un italiano è una triste cosa, un triste momento, e speriamo che si sollevi da questo.
Ma questa tristezza viene anche dalle sue origini: false. L’italiano non ha mai sentito, come gli inglesi, il bisogno della libertà.
La libertà, nei comuni italiani, era semplicemente l’indipendenza dai comuni vicini. Quando i fiorentini si dichiararono «liberi», lo fecero perché non volevano che venisse il governo spagnolo a comandarli. Oppure, nel caso di Siena, i cittadini di Siena combattevano per la «loro» libertà.
La parola «libertà», in Italia, ha per significato «il comodo mio»: io faccio il comodo mio, voglio la mia libertà, non la libertà degli altri, non la libertà delle altre idee, non la libertà di polemica, non «la libertà»... Ho detto qualche cosa di male? (applausi).
Ora, gli italiani hanno vissuto di illusioni; in tutti i modi vivono di illusioni, intendiamoci bene, in tutti i modi. Anche il mio popolo americano vive di illusioni; ma questi italiani hanno vissuto con il mito di Roma. Gli è sempre parso di essere i discendenti dei romani.
Non sono i discendenti dei romani: tutta l’aristocrazia romana fu distrutta dai cosiddetti «barbari», dai goti, dai longobardi soprattutto, dai franchi più tardi.
Rimase il popolo minuto forse, in qualche posto, ma tutto, tutto fu cambiato: gli italiani non sono i figli dei romani; gli italiani sono figli del Medioevo.
Perché tanta meraviglia, l’altro giorno, quando un numero imprecisato di persone ammazzò otto persone? Tre, perché secondo loro li avevano traditi e cinque perché erano testimoni? Che meraviglia?
Voi non sapete che cos’era il brigantaggio! Io, da bambino, ho viaggiato con mio padre, che era un alto funzionario italiano. Per recarsi dalla città di Grosseto alla campagna aveva accanto due carabinieri a cavallo: uno da una parte e uno dall’altra della vettura perché, diceva «un prefetto non può essere sequestrato», cioè a dire che al tempo mio il sequestro esisteva talmente che in una città - non del Mezzogiorno - era possibile che un prefetto venisse sequestrato.
Vi meraviglia di quelle persone, ma voi sapete quanto è durata la guerra del brigantaggio in Italia? Perché chiamate «Brigate rosse» quelli che si dovrebbero invece chiamare «briganti rossi» (applausi).
I «briganti rossi» sono esistiti in Italia dal ’60 al ’70. La guerra interna italiana, dopo che Garibaldi conquistò a prezzo di poche vite il Regno di Napoli, durò dieci anni, dal 1860 almeno fino al ’70, e costò molto di più della cifra di morti di tutto il Risorgimento.
Perché queste sono le cifre che noi rivelammo, avute dal ministero della Guerra italiano, di morti di tutto il Risorgimento: dal principio alla fine furono seimila morti. Una cifra che oggi fa ridere, quando le nostre guerre portano sei milioni di morti, sessanta milioni di morti! Mentre i morti della guerra del brigantaggio furono diecimila! Per dire che gli italiani persero più uomini in una guerra interna.
Questa guerra, chiamata del brigantaggio, era una guerra sociale e politica. Fondata su delle ragioni sociali profonde e fondata sull’aiuto dei poteri che ancora esistevano in Italia liberi, cioè il potere papale, le ambasciate di Spagna, che davano denaro a questi briganti, i quali facevano quello che hanno fatto l’altro giorno i brigatisti rossi: ammazzavano, bruciavano le vittime, bruciavano villaggi.
Questa storia, la storia del brigantaggio in Italia, è conosciuta da poche persone: non c’è un libro generale che racconti questa tremenda storia.
L’Italia fu fatta con la forza. È una cosa delle più curiose della psiche umana. Pur di non avere la leva, il meridionale preferiva mettersi in campagna, andare con i briganti. Preferiva morire da brigante che fare il soldato.
E quando dico del soldato - sono stato soldato anch’io - dico che il soldato italiano non era affatto peggiore degli altri. Ma era male guidato, male istruito, mal rifornito, mal nutrito. Ha combattuto male perché l’Italia combatté contro l’Austria nella proporzione di tre uomini contro uno: combatté male, ma non era colpa sua.
Il popolo italiano ha una grande pazienza: lo vedete in questi giorni, che pazienza. Come un altro popolo non sarebbe insorto contro quello che accade in Italia oggi! Ma il popolo italiano ha molta pazienza, troppa pazienza, poi qualche volta scoppia, si irrita. Ha ragione, ha perfettamente ragione poiché non c’è, probabilmente, altro che la forza che lo possa levare da una data situazione.
Soltanto che lo fa per delle cause accidentali e personali. È possibile avere uno sciopero in una fabbrica perché quella fabbrica è stata toccata. Ma poi, quando si tratta di un’azione più larga, di un principio, allora la cosa non gli interessa.
L’individualismo ha fatto sì che l’Italia non si è mai potuta costituire in nazione.
E si è costituita in nazione per influsso straniero.
Era un grande uomo questo Burckhardt: questo libro ancora oggi dice qualche cosa. Dopo oltre cento anni è un libro che dice qualche cosa: questo libro dice che gli italiani sono di natura indipendente, ognuno vuole fare per conto proprio, ognuno vuole essere separato dall’altro, ognuno vuole essere «capo», soprattutto (ilarità). Basta un piccolo gruppo ed egli (l’italiano, ndr) vuole essere il padrone, per dominare gli altri.
Non è vero che gli stranieri hanno portato la dominazione straniera in Italia: essa fu dovuta a Ludovico il Moro che chiamò i francesi: prima essa non esisteva.
Esisteva che cosa? Una separazione di comuni.
Quali sono le grandi creazioni politiche dell’Italia? La prima è il comune. Il comune è una cosa straordinaria: dal buio del Medioevo, dal buio della fine dell’impero romano, dalla confusione, dal disordine sorgono qua e là in Italia dei piccoli centri che si chiamano città. A un certo momento hanno il diritto di chiamarsi «città»: Modena, Parma, Piacenza, Lucca, Pisa, Firenze.
Ognuna cerca di avere dal potere di allora, dall’imperatore, dal Papa, il diritto di essere uno Stato. E questi Stati si fanno la guerra, per secoli, fino che uno non inghiotte l’altro, quando può.
La mia Siena fu conquistata da Firenze dopo trecento anni di lotte e, nell’ultimo stadio, i difensori di Siena andarono in fondo al territorio del comune, a Montalcino, e difesero ancora per cinque anni l’indipendenza della loro Siena che non esisteva più.
Chi ha evidenziato questa importanza della città nella storia italiana, non solo nella storia politica, ma nella storia morale del popolo italiano, fu una persona che è stata presso di voi vent’anni e, nonostante che fosse cittadino di Milano, ebbe anche delle cariche cittadine - perché allora la Svizzera permetteva a degli stranieri di avere delle cariche pubbliche -: Carlo Cattaneo, il quale partecipò alle vostre polemiche locali, com’era lui attaccabrighe, rivoluzionario e quindi anche con un grande ingegno, ma quasi sconosciuto in Italia.
L’Italia non ha mai accettato Cattaneo per la semplice ragione che Cattaneo era propagatore del concetto che il migliore Paese, la migliore amministrazione, il migliore sistema politico è quello della Confederazione, quello che aveva visto qui in Svizzera. Lo propose all’Italia, ma l’Italia gli prepose Mazzini, che voleva l’unità.
Perché? Perché per Mazzini la politica dipendeva da Dio, cioè da un concetto di unità universale.
Ciò che era vero per gli italiani, doveva essere vero per i giapponesi, per i lapponi, per gli argentini, per qualunque altro Paese.
Il concetto di un governo generale, uguale per tutti, è un concetto mazziniano: non è un concetto di Cattaneo.
Cattaneo è stato un apostolo, invano - ed anche un grande scrittore per conto mio - della amministrazione locale. Ed infatti, quando si parla con gli italiani (quando dico italiani, tutti siete italiani qua, parlando italiano intendo; questa è la «Svizzera italiana», non credo di dire un’enormità, vero? Siete italiani anche voi: non politicamente, ma almeno linguisticamente), questi italiani non si sono mai rassegnati a quello che gli è venuto dal di fuori.
Questo Risorgimento è stato un vestito straordinario, un vestito non comune, messo sopra delle persone che non lo potevano portare.
Oggi si vede che cosa è accaduto con il Risorgimento.
L’Italia attuale è una triste cosa... triste: per un italiano è una triste cosa, un triste momento, e speriamo che si sollevi da questo.
Ma questa tristezza viene anche dalle sue origini: false. L’italiano non ha mai sentito, come gli inglesi, il bisogno della libertà.
La libertà, nei comuni italiani, era semplicemente l’indipendenza dai comuni vicini. Quando i fiorentini si dichiararono «liberi», lo fecero perché non volevano che venisse il governo spagnolo a comandarli. Oppure, nel caso di Siena, i cittadini di Siena combattevano per la «loro» libertà.
La parola «libertà», in Italia, ha per significato «il comodo mio»: io faccio il comodo mio, voglio la mia libertà, non la libertà degli altri, non la libertà delle altre idee, non la libertà di polemica, non «la libertà»... Ho detto qualche cosa di male? (applausi).
Ora, gli italiani hanno vissuto di illusioni; in tutti i modi vivono di illusioni, intendiamoci bene, in tutti i modi. Anche il mio popolo americano vive di illusioni; ma questi italiani hanno vissuto con il mito di Roma. Gli è sempre parso di essere i discendenti dei romani.
Non sono i discendenti dei romani: tutta l’aristocrazia romana fu distrutta dai cosiddetti «barbari», dai goti, dai longobardi soprattutto, dai franchi più tardi.
Rimase il popolo minuto forse, in qualche posto, ma tutto, tutto fu cambiato: gli italiani non sono i figli dei romani; gli italiani sono figli del Medioevo.
Perché tanta meraviglia, l’altro giorno, quando un numero imprecisato di persone ammazzò otto persone? Tre, perché secondo loro li avevano traditi e cinque perché erano testimoni? Che meraviglia?
Voi non sapete che cos’era il brigantaggio! Io, da bambino, ho viaggiato con mio padre, che era un alto funzionario italiano. Per recarsi dalla città di Grosseto alla campagna aveva accanto due carabinieri a cavallo: uno da una parte e uno dall’altra della vettura perché, diceva «un prefetto non può essere sequestrato», cioè a dire che al tempo mio il sequestro esisteva talmente che in una città - non del Mezzogiorno - era possibile che un prefetto venisse sequestrato.
Vi meraviglia di quelle persone, ma voi sapete quanto è durata la guerra del brigantaggio in Italia? Perché chiamate «Brigate rosse» quelli che si dovrebbero invece chiamare «briganti rossi» (applausi).
I «briganti rossi» sono esistiti in Italia dal ’60 al ’70. La guerra interna italiana, dopo che Garibaldi conquistò a prezzo di poche vite il Regno di Napoli, durò dieci anni, dal 1860 almeno fino al ’70, e costò molto di più della cifra di morti di tutto il Risorgimento.
Perché queste sono le cifre che noi rivelammo, avute dal ministero della Guerra italiano, di morti di tutto il Risorgimento: dal principio alla fine furono seimila morti. Una cifra che oggi fa ridere, quando le nostre guerre portano sei milioni di morti, sessanta milioni di morti! Mentre i morti della guerra del brigantaggio furono diecimila! Per dire che gli italiani persero più uomini in una guerra interna.
Questa guerra, chiamata del brigantaggio, era una guerra sociale e politica. Fondata su delle ragioni sociali profonde e fondata sull’aiuto dei poteri che ancora esistevano in Italia liberi, cioè il potere papale, le ambasciate di Spagna, che davano denaro a questi briganti, i quali facevano quello che hanno fatto l’altro giorno i brigatisti rossi: ammazzavano, bruciavano le vittime, bruciavano villaggi.
Questa storia, la storia del brigantaggio in Italia, è conosciuta da poche persone: non c’è un libro generale che racconti questa tremenda storia.
L’Italia fu fatta con la forza. È una cosa delle più curiose della psiche umana. Pur di non avere la leva, il meridionale preferiva mettersi in campagna, andare con i briganti. Preferiva morire da brigante che fare il soldato.
E quando dico del soldato - sono stato soldato anch’io - dico che il soldato italiano non era affatto peggiore degli altri. Ma era male guidato, male istruito, mal rifornito, mal nutrito. Ha combattuto male perché l’Italia combatté contro l’Austria nella proporzione di tre uomini contro uno: combatté male, ma non era colpa sua.
Il popolo italiano ha una grande pazienza: lo vedete in questi giorni, che pazienza. Come un altro popolo non sarebbe insorto contro quello che accade in Italia oggi! Ma il popolo italiano ha molta pazienza, troppa pazienza, poi qualche volta scoppia, si irrita. Ha ragione, ha perfettamente ragione poiché non c’è, probabilmente, altro che la forza che lo possa levare da una data situazione.
Soltanto che lo fa per delle cause accidentali e personali. È possibile avere uno sciopero in una fabbrica perché quella fabbrica è stata toccata. Ma poi, quando si tratta di un’azione più larga, di un principio, allora la cosa non gli interessa.
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Più che profetiche quelle parole sono attualissime
di Giordano Bruno Guerri
di Giordano Bruno Guerri
Il fondatore dell’«Accademia degli Apoti» ha messo a nudo l’anima del nostro popolo
L’8 novembre 1979 Giuseppe Prezzolini aveva 97 anni, 9 mesi e 12 giorni. Mancavano oltre due anni e mezzo alla sua morte di centenario, e aveva la lucidità e lo spirito di un uomo nel pieno delle forze. Dal 1968 aveva scelto di vivere a Lugano, per stare in un luogo che non fosse l’amata/odiata Italia, con la sua detestata politica, ma dove si parlasse italiano. Amò quella città e quel Paese, dalla vita quieta e civile, tanto che proprio a Lugano destinò – si sa - il suo prezioso archivio e la sua biblioteca. Si sa meno che Prezzolini partecipò, fino all’ultimo, alle attività culturali della sua nuova patria: tanto che, appunto l’8 novembre 1979, tenne una conferenza (ma lui la volle chiamare «conversazione») nell’aula magna del liceo San Giuseppe.
Fu un atto di mecenatismo culturale, certo. Il migliore, quello in cui si dà se stessi, piuttosto che del denaro. Ma è altrettanto certo che il vegliardo era attratto anche dal tema della «conversazione», ovvero la passione furente e disillusa di tutta una vita: «Che cos’è l’Italia». Di lui sono memorabili articoli e libri, scritti nell’arco di ottant’anni, proprio sull’Italia e gli italiani, a partire da Codice della vita italiana (Edizioni della Voce, 1923, Robin 2003), La cultura italiana (Corbaccio, 1930), fino a L’Italia finisce, ecco quel che resta (Rusconi, 1981), al postumo L’italiano inutile (Rusconi 1983).
Il piccolo saggio-conversazione «Che cos’è l’Italia», invece, sarebbe rimasto sconosciuto se un luganese colto e amante del bello, il mio amico Giovanni Maria Staffieri, non fosse stato presente all’evento e non l’avesse registrato e trascritto con amore. Affidandomelo, poi, pochi giorni fa. Lo pubblichiamo in parte, fresco come appena detto, così attuale e dotto, pieno dell’amabilità – affatto dolciastra, anzi - che era dell’autore.
Lo storico e giornalista Mario Agliati, presentando Prezzolini all’auditorio («Evidentemente Prezzolini non si presenta...»), disse: «È un bel tipo, in quanto a questa virtù della cordialità naturaliter: è un uomo che ha la capacità di sedere alla tavola e mangiare con i più umili, con gli altri, che è una virtù da pochi». Il grande scrittore non voleva che lo si definisse uno scrittore né uno studioso: diceva di essere semplicemente un dilettante. È vero, nel senso che ha fatto solo le cose che gli piacevano, che gli davano diletto. Chi può dire altrettanto?
Per esempio, non ha mai votato. Né quando avrebbe potuto votare per Giolitti o per la scelta di vari presidenti americani, durante il lungo e volontario esilio negli Stati Uniti, o infine in uno di quei referendum che rappresentano la grande civiltà della Svizzera. Perché Prezzolini ero uno che non la beve, tanto che aveva fondato l’Accademia degli Apoti, ovvero «coloro che non le bevono», perché «la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque», come scrisse.
Aveva un altro vanto, Prezzolini, quello di non avere mai ricevuto uno stipendio dallo Stato italiano, se non quando prestò servizio militare nella Prima guerra mondiale, che aveva sostenuto con gli scritti, combattendo come sottotenente, tenente, capitano. Eppure era un nazionalista, così si etichettava anche la sua rivista La Voce, ma di un nazionalismo che puntava a un ingrandimento morale, non territoriale. Una crescita che gli sembrò di non vedere mai, né durante il periodo liberale, né in quello democratico, per non dire del fascismo. Di conseguenza Prezzolini si sentiva in diritto, e lo era, di prendere a frustate noi, che considerò sempre suoi connazionali, il suo popolo.
Lo si vede bene dalla passione che mette in questo «Che cos’è l’Italia», dove ripercorre e sintetizza alcuni dei suoi temi preferiti: gli italiani che non hanno niente a che fare con gli antichi romani, a differenza di quanto ci piace sempre sottintendere; l’individualismo che è alla base del nostro carattere, per cui l’Italia non si è mai potuta costituire in nazione se non per «influsso straniero». La polemica di Prezzolini sul Risorgimento anticipa di decenni quella odierna: Mazzini che viene preferito a Cattaneo perché per lui «la politica dipendeva da Dio, cioè da un concetto di unità universale», mentre la strada giusta, indicata invano da Cattaneo, era quello della confederazione: «Questo Risorgimento è stato un vestito straordinario, un vestito non comune, messo sopra delle persone che non lo potevano portare».
Sono attualissime, e da riscoprire, le parole sul brigantaggio: «Voi non sapete», lo diceva agli svizzeri, ma poteva ben dirlo anche agli italiani, «che cos’era il brigantaggio! \ La guerra interna italiana, dopo che Garibaldi conquistò al prezzo di poche vite il Regno di Napoli, durò dieci anni, dal 1860 almeno fino al ’70, e costò molto di più della cifra di morti di tutto il Risorgimento. \ Questa guerra, chiamata del brigantaggio, era una guerra sociale e politica. Fondata su delle ragioni sociali profonde e fondata sull’aiuto dei poteri che ancora esistevano in Italia liberi, cioè il potere papale, le ambasciate di Spagna, che davano denaro a questi briganti. Questa storia, la storia del brigantaggio in Italia, è conosciuta da poche persone: non c’è un libro generale che racconti questa tremenda storia. L’Italia fu fatta con la forza. È una cosa delle più curiose della psiche umana. Pur di non avere la leva, il meridionale preferiva mettersi in campagna, andare con i briganti. Preferiva morire da brigante che fare il soldato».
Generalizzazioni? Sì, Prezzolini lo sa e non le teme, come spiega nel botta e risposta con il pubblico. Infatti poi non distingue – nato a Perugia – fra meridionali e settentrionali. Parla di «popolo italiano» e ci attribuisce una dote (più dell’intelligenza) che pochi ci riconoscono: una grande pazienza: «Lo vedete in questi giorni, che pazienza. Un altro popolo sarebbe insorto contro quello che accade in Italia oggi!». Nell’Italia del 1979 i misteri Moro e Sindona avevano fatto del Paese un malato in peggioramento; Brigate rosse, disoccupazione, inflazione non venivano frenati né dal protagonismo dei sindacati, né dalla debolezza dei governi. Proprio in quei giorni, a Cagliari infuriava il colera e all’università di Firenze una bomba feriva quattro studenti. «Ma il popolo italiano ha molta pazienza, troppa pazienza, poi qualche volta scoppia, si irrita. Ha ragione, ha perfettamente ragione poiché non c’è, probabilmente, altro che la forza che lo possa levare da una data situazione».
Temo che Prezzolini direbbe le stesse parole anche oggi.
Fu un atto di mecenatismo culturale, certo. Il migliore, quello in cui si dà se stessi, piuttosto che del denaro. Ma è altrettanto certo che il vegliardo era attratto anche dal tema della «conversazione», ovvero la passione furente e disillusa di tutta una vita: «Che cos’è l’Italia». Di lui sono memorabili articoli e libri, scritti nell’arco di ottant’anni, proprio sull’Italia e gli italiani, a partire da Codice della vita italiana (Edizioni della Voce, 1923, Robin 2003), La cultura italiana (Corbaccio, 1930), fino a L’Italia finisce, ecco quel che resta (Rusconi, 1981), al postumo L’italiano inutile (Rusconi 1983).
Il piccolo saggio-conversazione «Che cos’è l’Italia», invece, sarebbe rimasto sconosciuto se un luganese colto e amante del bello, il mio amico Giovanni Maria Staffieri, non fosse stato presente all’evento e non l’avesse registrato e trascritto con amore. Affidandomelo, poi, pochi giorni fa. Lo pubblichiamo in parte, fresco come appena detto, così attuale e dotto, pieno dell’amabilità – affatto dolciastra, anzi - che era dell’autore.
Lo storico e giornalista Mario Agliati, presentando Prezzolini all’auditorio («Evidentemente Prezzolini non si presenta...»), disse: «È un bel tipo, in quanto a questa virtù della cordialità naturaliter: è un uomo che ha la capacità di sedere alla tavola e mangiare con i più umili, con gli altri, che è una virtù da pochi». Il grande scrittore non voleva che lo si definisse uno scrittore né uno studioso: diceva di essere semplicemente un dilettante. È vero, nel senso che ha fatto solo le cose che gli piacevano, che gli davano diletto. Chi può dire altrettanto?
Per esempio, non ha mai votato. Né quando avrebbe potuto votare per Giolitti o per la scelta di vari presidenti americani, durante il lungo e volontario esilio negli Stati Uniti, o infine in uno di quei referendum che rappresentano la grande civiltà della Svizzera. Perché Prezzolini ero uno che non la beve, tanto che aveva fondato l’Accademia degli Apoti, ovvero «coloro che non le bevono», perché «la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque», come scrisse.
Aveva un altro vanto, Prezzolini, quello di non avere mai ricevuto uno stipendio dallo Stato italiano, se non quando prestò servizio militare nella Prima guerra mondiale, che aveva sostenuto con gli scritti, combattendo come sottotenente, tenente, capitano. Eppure era un nazionalista, così si etichettava anche la sua rivista La Voce, ma di un nazionalismo che puntava a un ingrandimento morale, non territoriale. Una crescita che gli sembrò di non vedere mai, né durante il periodo liberale, né in quello democratico, per non dire del fascismo. Di conseguenza Prezzolini si sentiva in diritto, e lo era, di prendere a frustate noi, che considerò sempre suoi connazionali, il suo popolo.
Lo si vede bene dalla passione che mette in questo «Che cos’è l’Italia», dove ripercorre e sintetizza alcuni dei suoi temi preferiti: gli italiani che non hanno niente a che fare con gli antichi romani, a differenza di quanto ci piace sempre sottintendere; l’individualismo che è alla base del nostro carattere, per cui l’Italia non si è mai potuta costituire in nazione se non per «influsso straniero». La polemica di Prezzolini sul Risorgimento anticipa di decenni quella odierna: Mazzini che viene preferito a Cattaneo perché per lui «la politica dipendeva da Dio, cioè da un concetto di unità universale», mentre la strada giusta, indicata invano da Cattaneo, era quello della confederazione: «Questo Risorgimento è stato un vestito straordinario, un vestito non comune, messo sopra delle persone che non lo potevano portare».
Sono attualissime, e da riscoprire, le parole sul brigantaggio: «Voi non sapete», lo diceva agli svizzeri, ma poteva ben dirlo anche agli italiani, «che cos’era il brigantaggio! \ La guerra interna italiana, dopo che Garibaldi conquistò al prezzo di poche vite il Regno di Napoli, durò dieci anni, dal 1860 almeno fino al ’70, e costò molto di più della cifra di morti di tutto il Risorgimento. \ Questa guerra, chiamata del brigantaggio, era una guerra sociale e politica. Fondata su delle ragioni sociali profonde e fondata sull’aiuto dei poteri che ancora esistevano in Italia liberi, cioè il potere papale, le ambasciate di Spagna, che davano denaro a questi briganti. Questa storia, la storia del brigantaggio in Italia, è conosciuta da poche persone: non c’è un libro generale che racconti questa tremenda storia. L’Italia fu fatta con la forza. È una cosa delle più curiose della psiche umana. Pur di non avere la leva, il meridionale preferiva mettersi in campagna, andare con i briganti. Preferiva morire da brigante che fare il soldato».
Generalizzazioni? Sì, Prezzolini lo sa e non le teme, come spiega nel botta e risposta con il pubblico. Infatti poi non distingue – nato a Perugia – fra meridionali e settentrionali. Parla di «popolo italiano» e ci attribuisce una dote (più dell’intelligenza) che pochi ci riconoscono: una grande pazienza: «Lo vedete in questi giorni, che pazienza. Un altro popolo sarebbe insorto contro quello che accade in Italia oggi!». Nell’Italia del 1979 i misteri Moro e Sindona avevano fatto del Paese un malato in peggioramento; Brigate rosse, disoccupazione, inflazione non venivano frenati né dal protagonismo dei sindacati, né dalla debolezza dei governi. Proprio in quei giorni, a Cagliari infuriava il colera e all’università di Firenze una bomba feriva quattro studenti. «Ma il popolo italiano ha molta pazienza, troppa pazienza, poi qualche volta scoppia, si irrita. Ha ragione, ha perfettamente ragione poiché non c’è, probabilmente, altro che la forza che lo possa levare da una data situazione».
Temo che Prezzolini direbbe le stesse parole anche oggi.
«Il Giornale» del 10 aprile 2010
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