11 dicembre 2009

Se la vita è ridotta a «cosa» tutto diventa lecito

I «vincoli» dell’Aifa smascherano la Ru486
di Francesco Ognibene
Se qualcuno del tutto ignaro della sfibrante vicenda che ha portato a concedere il passaporto per l’Italia alla Ru486 leggesse l’atto col via libera dell’Agenzia del farmaco, pubblicato mercoledì dalla Gazzetta Ufficiale, non potrebbe far altro che allibire. Nella «determina» dell’Aifa infatti si parla di un medicinale che esige «rigoroso rispetto dei precetti normativi» in modo da tutelare «la salute della donna», per usare il quale «deve essere garantito il ricovero» lungo «tutto il percorso abortivo», con la somministrazione che necessariamente «deve avvenire sotto la sorveglianza di un medico» a causa dei «possibili rischi connessi» e delle «reazioni avverse segnalate, quali emorragie, infezioni ed eventi fatali».
Senza contare i «rischi teratogeni» e il «sensibile incremento del tasso di complicazioni in relazione alla durata della gestazione». Una mappa allarmante, trattandosi di un farmaco. Inevitabile chiedersi: ma che senso ha rendere accessibile un prodotto con questa lista nera di problemi? A chi interessa importare una specialità farmaceutica che richiede la cautela riservata alla merce pericolosa? Se le complicanze della pillola abortiva sono tali e tante – pubblicamente ammesse dall’ente preposto a vigilare sulla sicurezza dei farmaci – perché si è insistito pervicacemente nel volerla immettere nell’uso clinico, quando per molto meno (la casistica dell’Aifa è prodiga di esempi) altri farmaci sono stati giustamente lasciati fuori alla porta, sospesi o addirittura fatti ritirare dal commercio? I «vincoli del percorso di utilizzo», pur doverosi (e ancora lacunosi), snocciolano i gravi pericoli di un medicinale mentre lo si mette nelle mani dei cittadini. Predisporre ammortizzatori per evitare guai è indispensabile: ma non sarebbe stato meglio fermarsi per tempo di fronte all’evidenza difficilmente contestabile che l’aborto chimico è tutt’altro che un passo avanti rispetto a quello chirurgico?
A partita finita, vale la pena ripetere che pare esserci altro dietro questa vicenda conclusa – per ora – con quella che è una sconfitta per tutti, inclusi quanti ancora ieri esultavano perché «vince il buon senso». Nell’ostinazione che ha portato a sdoganare un farmaco ben più che inquietante per effetti clinici, sociali, psicologici e culturali, si coglie l’eco di altre "battaglie" condotte spregiudicatamente sulla pelle della persona umana, allo scopo di spostare sempre più in là la soglia oltre la quale la vita umana è una "cosa" biologica soggetta all’arbitrio, alla "libertà" senza più responsabilità, ai diritti più autolesionistici.
Se la vita non è un punto fermo di fronte al quale ci si chiede come tutelarla e non come spegnerla più silenziosamente, tutto diventa lecito: dunque, va sminuita la percezione del suo valore, pronti a sfidare le evidenze della ragione, della scienza, della stessa realtà che mostra l’espandersi dell’aborto nei Paesi dove la Ru486 è usata da tempo, la feroce solitudine nella quale è relegata la donna che abortisce, la rimozione dell’aborto stesso come dramma sociale per prosciugare il quale tutti dovrebbero schierarsi dalla stessa parte. E questo sarebbe un trionfo del buon senso?
Ora che la pillola abortiva viene affidata alla responsabilità dei medici, è a loro che occorre rivolgersi: perché dentro quei «vincoli» dell’Aifa vedano muoversi la nostra umanità, che resiste tenacemente a ogni nuova umiliazione.
«Avvenire» dell'11 dicembre 2009

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