11 dicembre 2009

Piccolo schermo troppo piccolo per Dio?

di Aldo Grasso
Osservando il creato si ha l’impressione che Dio ami la complessità. Osservando la tv si ha invece l’impressione che vi regni solo banalità. Il grande equivoco di molta comunicazione televisiva, compresa quella religiosa, è di confondere la semplicità (che è un grande progetto espositivo) con la banalità (che è solo inerzia comunicativa). Come conciliare allora la presenza del divino nella comunicazione televisiva? [...]
L’esperienza religiosa trova spazio in palinsesto sin dai primi passi della tv italiana, all’inizio degli anni Cinquanta. A differenza di altri esperimenti nazionali, infatti, la tv italiana non nacque ispirata da meri intenti commerciali o tecnologici, ma il nuovo medium fu pensato come un vero e proprio progetto culturale, fondato alla radice sulle tradizioni e sui retaggi culturali condivisi dai suoi spettatori [...]. La forma più immediata sperimentata dalla Rai delle origini è quella più legata al suo "specifico", cioè la capacità di annullare le distanze e le separazioni temporali per permettere la fruizione in contemporanea di grandi eventi.
E non è un caso che i primi esperimenti di trasmissione satellitare in Europa (Eurovisione) prendano vita proprio per dare voce alla parola del pontefice. A benedire questa missione di annullamento delle distanze resa possibile dalla tv arriva anche l’intervento di Pio XII, che elegge santa Chiara a santa patrona del piccolo schermo, per il suo mirabolante dono dell’ubiquità.
Oltre a questa prima, elementare, modalità di messa in scena del sacro, fortemente connessa allo specifico tecnologico della tv, la Rai e le gerarchie ecclesiastiche cercano un accordo per sfruttare il medium come strumento di apostolato, veicolo di evangelizzazione e conversione dotato di una straordinaria capacità di penetrazione tra i fedeli. È proprio tenendo conto di questa potenzialità di raggiungere fedeli sparsi in tutta Italia che la Chiesa italiana cerca di superare il tradizionale atteggiamento di diffidenza nei confronti dei media, considerati come possibili mezzi di corruzione. Due le vie: la tv come messaggera nell’ambito della macroarea linguistica del factual; il racconto per immagini di episodi e personaggi della storia sacra secondo le modalità tipiche della fiction.
Il modello di evangelizzazione passa generalmente attraverso la figura del predicatore, da padre Mariano ai giorni nostri. È di sicuro l’aspetto meno interessante, perché avviene secondo modelli rassicuranti, di mantenimento (secondo la formula del "convertire i già convertiti"), che stingono ben presto nella scontatezza. Il dubbio, il mistero, l’enigma sembrano non esistere. Per ogni domanda è giocoforza trovare una risposta e per ogni risposta un esperto pronto a rappresentarla. L’esperto, spesso un sacerdote, è un "jolly" che salta da una rete all’altra ripetendo, infaticabile, il suo responso, atrofizzato nelle sue certezze, forse ignaro di essere nel frattempo diventato Luogo Comune [...].
Con una sola eccezione. Frontiere dello spirito è mosso da un’ambizione radicale: far partecipe lo spettatore di una gioia difficile ma irrinunciabile. Una lettura "viva" della Bibbia, infatti, comporta che ogni parola trabocchi di senso ed esploda in lampi, analogie, rapporti, collegamenti. Conoscere la "parola" significa immergersi in una sorta di flusso magnetico dove le idee, le notizie, le interpretazioni, le illuminazioni, le sorprese, i piaceri della scoperta formano una rete di connessioni, un’esegesi continua, una ideale forma di lettura. Ormai, in quasi tutta la tv italiana, solo Gianfranco Ravasi riesce, partendo da un versetto biblico a trasformare il discorso in una lezione magistrale.
La seconda modalità di messa in forma del sacro in televisione è quella legata alla fiction.
Anche in questo secondo filone, la tv sembra denunciare difficoltà stilistiche e linguistiche; soprattutto sembra faticare nel percorrere una strada che comunichi la religione in modo semplice (adeguandosi al target televisivo medio), senza però banalizzarne i contenuti. Un interrogativo fondamentale che sorge poi quando si parla di trasposizioni televisive di episodi e personaggi della storia sacra è come può il visibile (la tv, il cinema, gli audiovisivi) misurarsi con l’invisibile (il fascino del racconto sacro). La tv e il linguaggio audiovisivo vivono infatti di evidenza, di prossimità. In Italia si è risolto il quesito con il modello dell’agiografia: un flashback iniziale in cui l’uomo non comune è sul letto di morte e ripensa alla sua vita; un attore importante e tanti comprimari. Questa è la scuola della mini-serialità che permette più agevoli strategie di finanziamento e di programmazione ma i cui esiti espressivi sono spesso molto deludenti.
Poi arriva la serialità americana, poi arriva Lost. Che ci aiuta a capire la differenza fondamentale tra la piccola agiografia e la grande narrazione. Firmato da Damon Lindelof, Carlton Cuse e da J.J. Abrams, Lost è una delle serie che meglio ci aiuta a riflettere sul mondo contemporaneo, popolata com’è da misteri: viaggi nel tempo, cospirazioni, fenomeni inspiegabili, lotta per la sopravvivenza, sfida continua fra Fede e Ragione. La natura filosofica di Lost non si esaurisce nel gioco dei nomi di famosi filosofi attribuiti ai personaggi (Locke, Rousseau, Hume, Bentham) o in quello di qualche filosofo esplicitamente citato (Nietzsche)… Occorre piuttosto dire che la filosofia lavora al cuore di tenebra di Lost nella forma di una serie di questioni fondamentali: Che cos’è un isola? Che cosa significa sopravvivere? Esiste il mondo esterno o è una mera illusione? Che cos’è la verità? C’è Dio? [...]
Un piccolo classico per capire Lost è certamente il libro di Hans Blumenberg Naufragio con spettatore, dove è sviluppata l’antica metafora del naufragio che è stata spesso scelta per illustrare i rischi dell’esistenza umana nel corso della "navigazione della vita".
Essa rinvia agli atteggiamenti fondamentali, tutti presenti in Lost, che si assumono nei confronti del mondo: in favore della sicurezza o del rischio, dell’estraneità o del coinvolgimento negli eventi, del ruolo dello spettatore passivo o di quello dell’attore: «Due promesse determinano soprattutto la pregnanza della metaforica di navigazione e naufragio: il mare come confine assegnato dalla natura allo spazio delle imprese umane e, d’altro canto, la sua demonizzazione come sfera dell’imprevedibilità, dell’anarchia, del disorientamento. Fin nell’iconografia cristiana il mare è il luogo dell’epifania del male, anche col tratto gnostico di una figurazione della materia bruta che tutto inghiotte e riprende in sé.
Tra le promesse dell’Apocalisse di Giovanni c’è anche quella che nello stato messianico non ci sarà più il mare («he thalassa ouk esti eti»). Nella sua forma pura l’andar errando è un’espressione per arbitrio delle potenze scatenate: la ricusazione del ritorno in patria – come accade ad Odisseo, il vagare senza meta ed infine il naufragio, nel quale l’affidabilità del cosmo diventa dubbia e viene anticipato il suo controvalore gnostico».
Il senso del mondo moderno sta nella risposta a una grande domanda di Pascal (raffigurata dalla metafora dell’immenso naufragio in cui è precipitato l’uomo), che è diventata la chiave della nostra esistenza. Possiamo vivere nel perenne naufragio? Possiamo vivere senza terra, senza base, senza stabilità, senza specola dalla quale guardare? Anche Lost si pone queste eterne domande. Lost è una lunga interrogazione sul destino, cioè la domanda delle domande cui l’uomo tenta di dare una risposta da quando non subisce come le bestie; da quando Amleto si accorge che "The time is out of joint", è fuori dei cardini: lo dobbiamo accettare il nostro futuro o possiamo eluderlo?
«Avvenire» dell'11 dicembre 2009

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