La croce, la bandiera, il minareto
di Giorgio Paolucci
Il referendum che ha bocciato la costruzione di nuovi minareti in terra svizzera sta producendo esiti che rilanciano questioni antiche e nuove. In Italia un esponente leghista di primo piano come Roberto Castelli ha lanciato l’idea di apporre la croce sul tricolore. Su di essa si è innescato l’ennesimo fuoco fatuo, con sedicenti defensores fidei che pensano di far salire le quotazioni del simbolo per eccellenza del cristianesimo associandolo (con sorprendenti nostalgie sabaude…) alla bandiera del nostro Paese. L’operazione, in verità, appare di corto respiro: le forti reazioni popolari alla sentenza sul crocifisso emanata dalla Corte di Strasburgo confermano quanto sia radicata nel comune sentire la consapevolezza del valore universale di quello che solo impropriamente può essere ridotto a mero simbolo identitario, e insieme fanno emergere la strumentale leggerezza di quanti se ne vogliono appropriare.
E veniamo agli altri (e più seri) nodi problematici che il voto svizzero porta con sé. Va detto che se l’obiettivo dei vincitori è quello di frenare l’avanzata del fondamentalismo islamico, il risultato che verosimilmente verrà raggiunto sarà invece – in una sorta di effetto-boomerang – la radicalizzazione di quelle stesse componenti, alle quali viene fornito un buon alibi per presentarsi come vittime dell’ostilità anti-musulmana. Il problema non è tanto come le moschee debbano essere costruite (giacché, con o senza il minareto, se ne continueranno a costruire), ma cosa nelle moschee si predica e si fa, quali sono i messaggi che in esse vengono diffusi, in omaggio a una concezione che ne fa qualcosa di molto diverso da un semplice luogo di culto e le trasforma in centri di irradiazione di una visione integralista e antioccidentale dell’islam. Non è in discussione la libertà religiosa, che rimane un pilastro del patrimonio normativo e culturale dell’Europa e certo non può essere messo in discussione dall’esito di una consultazione popolare che va inquadrata nella particolare cornice giuridico-istituzionale della Confederazione elvetica (lo spieghiamo nelle pagine interne) e non può essere 'importata' in Italia, come si è affrettato a chiedere il Carroccio.
La libera espressione del sentimento religioso appartiene alla categoria dei diritti individuali e sociali – ivi compreso quello di convertirsi a un’altra fede – e rappresenta una delle caratteristiche irrinunciabili dell’Occidente, che segna la differenza rispetto ad altre civiltà (ad esempio quella islamica, che riconosce quei diritti in base all’appartenenza comunitaria anziché come prerogative legate alla persona). Infine, una considerazione sulla parola 'identità', di questi tempi molto usata e spesso abusata. I promotori del referendum svizzero e i loro corifei di altre latitudini si candidano come alfieri di un’identità cristiana minacciata da una nuova invasione musulmana, che arriva dopo quelle dei secoli scorsi. In realtà essi riducono il cristianesimo a un 'pacchetto' di valori strumentalmente preselezionati. Usandolo come un’arma da brandire contro il nemico, indeboliscono la forza di quel Crocifisso che da duemila anni continua a provocare le coscienze di ogni uomo, e che non è né un cimelio della pietà popolare per cui nutrire un devoto ricordo, né il generico simbolo di una tradizione sociale e culturale, ma una presenza viva che dà spessore alla parola 'identità', altrimenti riducibile a un’entità ideologica.
La croce di Cristo parla a tutti e non ferisce alcuno. Per i credenti è la fonte di quell’energia che consente di aprirsi (senza irenismi o ingenuità) al confronto con l’altro e di vivergli costruttivamente accanto. L’Europa, nata dall’incontro fecondo del cristianesimo con l’impero romano e le civiltà barbariche, non può fare a meno di misurarsi con quanti ne hanno fatto la loro nuova dimora. E può farlo solo a partire da un’identità tanto forte quanto aperta.
E veniamo agli altri (e più seri) nodi problematici che il voto svizzero porta con sé. Va detto che se l’obiettivo dei vincitori è quello di frenare l’avanzata del fondamentalismo islamico, il risultato che verosimilmente verrà raggiunto sarà invece – in una sorta di effetto-boomerang – la radicalizzazione di quelle stesse componenti, alle quali viene fornito un buon alibi per presentarsi come vittime dell’ostilità anti-musulmana. Il problema non è tanto come le moschee debbano essere costruite (giacché, con o senza il minareto, se ne continueranno a costruire), ma cosa nelle moschee si predica e si fa, quali sono i messaggi che in esse vengono diffusi, in omaggio a una concezione che ne fa qualcosa di molto diverso da un semplice luogo di culto e le trasforma in centri di irradiazione di una visione integralista e antioccidentale dell’islam. Non è in discussione la libertà religiosa, che rimane un pilastro del patrimonio normativo e culturale dell’Europa e certo non può essere messo in discussione dall’esito di una consultazione popolare che va inquadrata nella particolare cornice giuridico-istituzionale della Confederazione elvetica (lo spieghiamo nelle pagine interne) e non può essere 'importata' in Italia, come si è affrettato a chiedere il Carroccio.
La libera espressione del sentimento religioso appartiene alla categoria dei diritti individuali e sociali – ivi compreso quello di convertirsi a un’altra fede – e rappresenta una delle caratteristiche irrinunciabili dell’Occidente, che segna la differenza rispetto ad altre civiltà (ad esempio quella islamica, che riconosce quei diritti in base all’appartenenza comunitaria anziché come prerogative legate alla persona). Infine, una considerazione sulla parola 'identità', di questi tempi molto usata e spesso abusata. I promotori del referendum svizzero e i loro corifei di altre latitudini si candidano come alfieri di un’identità cristiana minacciata da una nuova invasione musulmana, che arriva dopo quelle dei secoli scorsi. In realtà essi riducono il cristianesimo a un 'pacchetto' di valori strumentalmente preselezionati. Usandolo come un’arma da brandire contro il nemico, indeboliscono la forza di quel Crocifisso che da duemila anni continua a provocare le coscienze di ogni uomo, e che non è né un cimelio della pietà popolare per cui nutrire un devoto ricordo, né il generico simbolo di una tradizione sociale e culturale, ma una presenza viva che dà spessore alla parola 'identità', altrimenti riducibile a un’entità ideologica.
La croce di Cristo parla a tutti e non ferisce alcuno. Per i credenti è la fonte di quell’energia che consente di aprirsi (senza irenismi o ingenuità) al confronto con l’altro e di vivergli costruttivamente accanto. L’Europa, nata dall’incontro fecondo del cristianesimo con l’impero romano e le civiltà barbariche, non può fare a meno di misurarsi con quanti ne hanno fatto la loro nuova dimora. E può farlo solo a partire da un’identità tanto forte quanto aperta.
«Avvenire» del 1 dicembre 2009
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