09 dicembre 2009

«Fu il Pci a condannare all’oblio gli italiani di Russia»

di Matteo Sacchi
Ti accoglie nel salone della grande casa di famiglia a Besana Brianza, nel preciso momento in cui il buio si inghiotte la pianura. Lo sguardo è sicuro, il passo malfermo. Ma è l’unico dettaglio che riveli il peso del tempo. La prontezza delle risposte lo fa sembrare più giovane: eppure porta sulle spalle il peso di 88 inverni, di cui uno trascorso sul fronte russo come sottotenente di artiglieria. È l’inverno del 1942, quello in cui il fronte italiano sul Don venne spezzato, come una lastra di ghiaccio troppo sottile, dall’onda di piena dell’avanzata russa, una massa di corazzati e soldati che piombò sull’Armir. Sì, perché lui è Eugenio Corti, lo scrittore che con Bedeschi e Rigoni Stern forma la «trinità» letteraria che ha trasformato quella tremendo tempesta di freddo e di acciaio in materia per alcuni dei più toccanti libri della letteratura italiana del ’900. Ma di questa «trinità» Corti è il vertice meno ricordato. Il suo magistrale Il Cavallo rosso, arrivato a 24 edizioni grazie al passaparola e a una coraggiosa scommessa della casa editrice Ares, è stato rifiutato, appena composto, da tutti i grandi editori italiani. Esattamente come altre opere gli sono costate l’ostracismo e la congiura del silenzio a parte dell’intellighenzia. Domani Milano gli dedica un convegno, a Palazzo Reale: «Eugenio Corti. Un grande scrittore lombardo. Dalla Campagna di Russia ai giorni nostri».
Eppure per lungo tempo la memoria di quella campagna, e soprattutto dei molti italiani che sono rimasti nei gulag, è stata rimossa. Perché?
«La vicenda degli italiani in Russia durante la seconda guerra mondiale è complessa. Innanzi tutto il ricordo è diverso tra coloro che fecero parte del contingente alpino e coloro che facevano parte dei reparti di truppa ordinaria. Gli alpini hanno compiuto delle gesta straordinarie e su queste hanno costruito un’epica, il culto di un sacrificio che è essenzialmente sublimazione dei valori più alti dell’essere umano. Gli altri reparti, invece, furono salvati dai tedeschi che però li trattarono in modo squallido, coprendoli di disprezzo. E di questa esperienza gli scampati hanno sempre preferito non parlare. Quanto alla questione dei gulag quella era scomoda politicamente. Il ricordo degli italiani morti di stenti non era buona propaganda per il partito comunista».
Cosa pensa degli archivi del Kgb che il presidente bielorusso Lukashenko ha consegnato a Berlusconi?
«Il gesto è molto importante. Non so cosa contengano. Se sono relativi solo al territorio bielorusso dubito che possano fornirci informazioni particolari sul destino delle migliaia di italiani che morirono nei gulag. Se invece riguardano anche altre zone della Russia ci offrono possibilità enormi».
Quale fu il ruolo del Pci nel decidere il destino dei nostri prigionieri in mano ai sovietici?
«Di questo sappiamo già molto dal ricordo dei superstiti. La gran parte degli italiani morirono durante le così dette marce del davai (avanti! in russo) e i trasferimenti nei carri bestiame gelati. Chi non morì lì, subì per mesi la fame nei campi e morì di stenti, almeno sino a che non arrivarono le razioni di soia mandate dagli americani. I comunisti italiani, Togliatti in testa, si presentarono ai campi solo nel tentativo di indottrinare i superstiti. Togliatti teneva interminabili conferenze, di cui i testimoni ricordavano soprattutto l’incredibile numero di bestemmie che pronunciava. I russi li avevamo invasi e per certi versi il loro comportamento, escluse alcune barbarie, lo posso capire. I comunisti italiani invece pensavano solo a come poter esportare la rivoluzione nel nostro Paese. Per loro i prigionieri erano una materia grezza, su cui lavorare, da poter manipolare. Tra i peggiori Paolo Robotti, parente acquisito di Togliatti, un aguzzino».
Alcuni suoi libri, soprattutto Il Cavallo rosso, sono stati a lungo respinti dagli editori e passati sotto il silenzio della critica anche perché parlano di queste cose?
«Nel nostro Paese non si voleva che tutta una serie di verità circolasse. Nella mia batteria di artiglieria c’era un ragazzo siciliano che aveva imparato benissimo il russo. Io e lui parlavamo ogni volta che era possibile con i civili delle zone occupate. Non era facile convincerli a raccontarci della loro vita sotto Stalin. Ma quando li convincevi venivano fuori storie mostruose, un numero incredibile di deportati, almeno uno per famiglia, ti mostravano le foto. Ricordo ancora adesso una ragazza che mi mostrava quella del fratello... O tutti quei bambini rimasti orfani perché gli avevano deportato i genitori, era impressionante. Ecco perché quando sono tornato ho studiato e scritto sempre su questo tema. Ecco perché la cultura dominante in Francia e in Italia mi ha o relegato nel silenzio o attaccato».
Lei ha continuato a scrivere e a lottare per le sue idee anche se questo sforzo le è stato riconosciuto solo tardivamente. Perché?
«I motivi sono molti ma c’è anche questo. Mi trovavo nella valle della morte di Arbusov in mezzo ai cadaveri. E ho fatto un voto. Se mi fossi salvato avrei dedicato il resto della vita a mettere in pratica un versetto del Padre nostro: Venga il tuo regno. Insomma il voto di adoperarmi in difesa della bellezza e della verità. E quindi la verità per come ho potuto vederla ho cercato di scriverla».
«Il Giornale» del 9 dicembre 2009

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