La nostra società appare a tutti gli osservatori profondamente diseguale e statica. Ma oggi anche il modello Usa sembra mostrare i suoi limiti
di Alessandra Farkas
«Una delle grandi conquiste dell’era moderna è l’aver reso più giusta l'America», afferma il noto columnist del «New York Times» David Brooks, autore di Bobos in Paradise: The New Upper Class And How They Got There, sottolineando come, sessant’anni fa, i gradi più alti della società erano dominati da ciò che il sociologo E. Digby Baltzell, l’inventore della sigla Wasp, ribattezzò l’Establishment Protestante nell’omonimo libro del 1964.
«Se tuo padre si era laureato a Harvard, anche tu avevi il 90% di probabilità di andarci», teorizza Brooks, «e di lì in poi il tuo cammino verso il successo era tracciato». Da allora l'America ha aperto la porta a donne, afroamericani, ebrei, italiani, polacchi, ispanici e membri di altre minoranze, stravolgendo i criteri stessi di successo. L’elezione di Barack Obama ne è la prova: oggi intelligenza e impegno contano più del pedigree.
«Le nomine dell’amministrazione Obama indicano un trend futuro in cui una laurea Ivy League sarà indispensabile per accedere ai vertici del governo», afferma l’«Harvard Crimson», giornale dell’illustre Università Ivy League, secondo cui «la vera selezione viene operata a livello universitario: non è tanto come nasci, ma che laurea hai».
Ogni anno, nelle università americane, sono erogati circa 11 miliardi di dollari in borse di studio. Alcune di queste sono basate sul merito, altre combinano il rendimento scolastico con altri criteri, quali l’appartenenza a una minoranza etnica o il tipo di studi (ad esempio discipline scientifiche). I fondi sono federali, statali, universitari, oppure provengono da organizzazioni filantropiche o privati che desiderano sostenere l’istruzione.
Un numero senza precedenti di nomine obamiane ha usufruito di tali sussidi. «La meritocrazia nell’era Obama è aumentata in modo esponenziale rispetto al clientelismo sfrenato della monarchia Bush-Cheney», teorizza l’autore di Le Correzioni Jonathan Franzen, «basta guardare le credenziali accademiche di Obama e dei suoi ministri per capire che esperienza e competenza hanno ripreso il sopravvento».
In un recente sondaggio Pew, il 71% degli americani gli dà ragione, asserendo che i fattori più importanti per fare carriera sono ambizione, sforzo individuale e istruzione, non una famiglia abbiente alle spalle. Ad assicurare l’applicazione delle leggi federali che garantiscono pari opportunità di accesso al lavoro e di livello salariale ci pensa l’«Equal Employment Opportunity Commission» che proibisce la discriminazione sul luogo di lavoro in base a razza, colore, Paese d’origine, religione, genere, età, condizioni fisiche e orientamento sessuale.
Ma equità non significa necessariamente una società migliore. A lanciare la provocazione è lo stesso Brooks, che critica le nuove élite meritocratiche provenienti dall'Ivy League - ebrei, ispanici, italiani - perché «la loro reputazione è meno solida e la loro scarsa empatia accresce, paradossalmente, la distanza dalle masse». «Chi può dimostrare che le banche funzionino meglio oggi di 50 anni fa», si chiede Brooks, «quando il mondo finanziario era dominato da aristocratici Wasp che bevevano a pranzo e giocavano a golf nel pomeriggio?».
Il primo a denunciare i rischi della «vera meritocrazia » è stato Christopher Lasch che in La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, del 1996, aveva denunciato i nuovi padroni, «inflessibili, arroganti e privi di senso di gratitudine o altruismo», perché «convinti di dovere la propria posizione di prestigio al solo merito personale».
Ma una scuola di pensiero diametralmente opposta sta mettendo piede tra l’intellighenzia Usa. «L’America sta diventando meno meritocratica, man mano che le élite nepotistiche ed etniche cominciano a riscoprire pratiche dinastiche implementate da ambiziosi clan nei secoli passati», spiega Adam Bellow, figlio del premio Nobel per la letteratura Saul Bellow ed autore di In Praise of Nepotism: a Natural History. «Hollywood, Washington e Wall Street», incalza Bellow, «hanno inconsciamente rispolverato pratiche intermatrimoniali e strategiche usate consapevolmente da famiglie ambiziose quali Bach, Borgia e Bonaparte, e dai clan mafiosi in Italia e Usa».
Ciò spiegherebbe la recente proliferazione di libri contro il «falso mito» della meritocrazia Usa che accusano l’America d’aver tradito la promessa di essere la shining city on a hill invocata dai padri fondatori, da Jfk e da Reagan. In Lost in the Meritocracy: The Undereducation of an Overachiever, Walter Kirn fa a pezzi il mito. «Come figlio naturale della meritocrazia», confessa l’autore di Up in the Air, da cui è stato tratto il film candidato al’Oscar, «ho vissuto in funzione di premi, targhe, citazioni, stellette, e non mi sono mai soffermato sui miei obiettivi, al di là dei riconoscimenti». Imparare era secondario, rispetto all’essere promosso e accumulare punteggio. Raggiunto il traguardo di Princeton, «invece di trovarmi in un tempio del sapere, sono piombato nel regno degli stratagemmi, dello snobismo, dell’arrivismo sfrenato e delle droghe».
Uno degli effetti indesiderati della meritocrazia, denunciano i suoi detrattori, è l’aumento della disuguaglianza sociale, un fenomeno sempre più evidente. Secondo i dati dell’Us Census Bureau, oltre il 13% degli americani vive sotto la soglia di povertà. Inoltre, nel 2007 l’1% delle famiglie a più alto reddito deteneva quasi il 35% della ricchezza prodotta nel Paese (la quota più grande dal 1928).
In The Meritocracy Myth Stephen J. McNamee e Robert K. Miller affermano che esistono fattori più premianti di talento e impegno: le conoscenze, il fitting in (capitale culturale) e la fortuna. Secondo i due docenti di sociologia all’Università del North Carolina, «crescere in famiglie privilegiate amplia sia la possibilità di acquisire e sviluppare competenze individuali, sia le chance di riconoscimento di tali abilità». «In America il mito della meritocrazia è pericoloso perché favorisce ingiustamente i ricchi e colpisce i poveri», è la loro conclusione.
Una tesi ripresa da Gender, Race, and Meritocracy in Organizational Careers di Emilio J. Castilla, secondo cui sul posto di lavoro gli Stati Uniti continuano a premiare uomini e classi privilegiate, escludendo le donne, i meno abbienti e le minoranze. «Sebbene non vi sia prova che sesso, razza, o nazionalità determinino differenze salariali al momento dell'assunzione » scrive l'autore, «nel tempo le aziende tendono ad aumentare maggiormente gli stipendi dei dipendenti maschi, anche a parità di valutazione di performance rispetto alle colleghe».
«Se tuo padre si era laureato a Harvard, anche tu avevi il 90% di probabilità di andarci», teorizza Brooks, «e di lì in poi il tuo cammino verso il successo era tracciato». Da allora l'America ha aperto la porta a donne, afroamericani, ebrei, italiani, polacchi, ispanici e membri di altre minoranze, stravolgendo i criteri stessi di successo. L’elezione di Barack Obama ne è la prova: oggi intelligenza e impegno contano più del pedigree.
«Le nomine dell’amministrazione Obama indicano un trend futuro in cui una laurea Ivy League sarà indispensabile per accedere ai vertici del governo», afferma l’«Harvard Crimson», giornale dell’illustre Università Ivy League, secondo cui «la vera selezione viene operata a livello universitario: non è tanto come nasci, ma che laurea hai».
Ogni anno, nelle università americane, sono erogati circa 11 miliardi di dollari in borse di studio. Alcune di queste sono basate sul merito, altre combinano il rendimento scolastico con altri criteri, quali l’appartenenza a una minoranza etnica o il tipo di studi (ad esempio discipline scientifiche). I fondi sono federali, statali, universitari, oppure provengono da organizzazioni filantropiche o privati che desiderano sostenere l’istruzione.
Un numero senza precedenti di nomine obamiane ha usufruito di tali sussidi. «La meritocrazia nell’era Obama è aumentata in modo esponenziale rispetto al clientelismo sfrenato della monarchia Bush-Cheney», teorizza l’autore di Le Correzioni Jonathan Franzen, «basta guardare le credenziali accademiche di Obama e dei suoi ministri per capire che esperienza e competenza hanno ripreso il sopravvento».
In un recente sondaggio Pew, il 71% degli americani gli dà ragione, asserendo che i fattori più importanti per fare carriera sono ambizione, sforzo individuale e istruzione, non una famiglia abbiente alle spalle. Ad assicurare l’applicazione delle leggi federali che garantiscono pari opportunità di accesso al lavoro e di livello salariale ci pensa l’«Equal Employment Opportunity Commission» che proibisce la discriminazione sul luogo di lavoro in base a razza, colore, Paese d’origine, religione, genere, età, condizioni fisiche e orientamento sessuale.
Ma equità non significa necessariamente una società migliore. A lanciare la provocazione è lo stesso Brooks, che critica le nuove élite meritocratiche provenienti dall'Ivy League - ebrei, ispanici, italiani - perché «la loro reputazione è meno solida e la loro scarsa empatia accresce, paradossalmente, la distanza dalle masse». «Chi può dimostrare che le banche funzionino meglio oggi di 50 anni fa», si chiede Brooks, «quando il mondo finanziario era dominato da aristocratici Wasp che bevevano a pranzo e giocavano a golf nel pomeriggio?».
Il primo a denunciare i rischi della «vera meritocrazia » è stato Christopher Lasch che in La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, del 1996, aveva denunciato i nuovi padroni, «inflessibili, arroganti e privi di senso di gratitudine o altruismo», perché «convinti di dovere la propria posizione di prestigio al solo merito personale».
Ma una scuola di pensiero diametralmente opposta sta mettendo piede tra l’intellighenzia Usa. «L’America sta diventando meno meritocratica, man mano che le élite nepotistiche ed etniche cominciano a riscoprire pratiche dinastiche implementate da ambiziosi clan nei secoli passati», spiega Adam Bellow, figlio del premio Nobel per la letteratura Saul Bellow ed autore di In Praise of Nepotism: a Natural History. «Hollywood, Washington e Wall Street», incalza Bellow, «hanno inconsciamente rispolverato pratiche intermatrimoniali e strategiche usate consapevolmente da famiglie ambiziose quali Bach, Borgia e Bonaparte, e dai clan mafiosi in Italia e Usa».
Ciò spiegherebbe la recente proliferazione di libri contro il «falso mito» della meritocrazia Usa che accusano l’America d’aver tradito la promessa di essere la shining city on a hill invocata dai padri fondatori, da Jfk e da Reagan. In Lost in the Meritocracy: The Undereducation of an Overachiever, Walter Kirn fa a pezzi il mito. «Come figlio naturale della meritocrazia», confessa l’autore di Up in the Air, da cui è stato tratto il film candidato al’Oscar, «ho vissuto in funzione di premi, targhe, citazioni, stellette, e non mi sono mai soffermato sui miei obiettivi, al di là dei riconoscimenti». Imparare era secondario, rispetto all’essere promosso e accumulare punteggio. Raggiunto il traguardo di Princeton, «invece di trovarmi in un tempio del sapere, sono piombato nel regno degli stratagemmi, dello snobismo, dell’arrivismo sfrenato e delle droghe».
Uno degli effetti indesiderati della meritocrazia, denunciano i suoi detrattori, è l’aumento della disuguaglianza sociale, un fenomeno sempre più evidente. Secondo i dati dell’Us Census Bureau, oltre il 13% degli americani vive sotto la soglia di povertà. Inoltre, nel 2007 l’1% delle famiglie a più alto reddito deteneva quasi il 35% della ricchezza prodotta nel Paese (la quota più grande dal 1928).
In The Meritocracy Myth Stephen J. McNamee e Robert K. Miller affermano che esistono fattori più premianti di talento e impegno: le conoscenze, il fitting in (capitale culturale) e la fortuna. Secondo i due docenti di sociologia all’Università del North Carolina, «crescere in famiglie privilegiate amplia sia la possibilità di acquisire e sviluppare competenze individuali, sia le chance di riconoscimento di tali abilità». «In America il mito della meritocrazia è pericoloso perché favorisce ingiustamente i ricchi e colpisce i poveri», è la loro conclusione.
Una tesi ripresa da Gender, Race, and Meritocracy in Organizational Careers di Emilio J. Castilla, secondo cui sul posto di lavoro gli Stati Uniti continuano a premiare uomini e classi privilegiate, escludendo le donne, i meno abbienti e le minoranze. «Sebbene non vi sia prova che sesso, razza, o nazionalità determinino differenze salariali al momento dell'assunzione » scrive l'autore, «nel tempo le aziende tendono ad aumentare maggiormente gli stipendi dei dipendenti maschi, anche a parità di valutazione di performance rispetto alle colleghe».
«Corriere della Sera» del 5 luglio 2010
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