13 luglio 2010

Giornalismo su internet: tanto "stupido", tanto travolgente

di Marco Niada
Una delle pene peggiori a cui può essere sottoposto un cronista è andare a un convegno e cercare di trovare il bandolo di una matassa in cui si ingarbugliano decine di opinioni di gente preparata e intelligente. Questa volta mi è andata bene, dato che la linea era chiara. Sono andato a al leggendario Frontline Club che riunisce la crema dei corrispondenti di guerra inglesi. Tema dell'incontro: "The future of Journalism" nell'era di internet. Organizzato dal giornalista esperto di media John Lloyd per conto di Axess l'incontro è stato un successo e ha fatto trapelare idee originali. Lloyd, che è anche direttore del Reuters Institute for the Study of Journalism, ha infatti riunito per un giorno intero un panel d'eccezione che riuniva costituzionalisti come l'americano Philip Bobbit, pezzi grossi della BBC, accademici come Stephen Coleman dell'Università di Leeds e James Curran dell'Università di Londra e numerosi giornalisti come Ian Hargreaves, ex vicedirettore del Financial Times e ex direttore di The Independent. Quale il verdetto? Quanto ho capito l'ho messo nel titolo: internet sta completamente cambiando il paradigma portando la distribuzione a livello di massa ma manca ancora di un "cervello" adeguato, dato che le notizie importanti vengono ancora dal giornalismo tradizionale che si avvale di professionisti che sanno scovare ed elaborare le informazioni. Il problema è come mettere assieme Ricerca & Sviluppo e distribuzione in modo ottimale, per usare un termine mutuato dal mondo aziendale. Bobbit non ha dubbi che lo Stato Mercato sta soppiantando sempre più il vecchio Stato Nazione. Lo Stato Mercato se ne infischia di valori come la lealtà, lo spirito di sacrificio personale, la famiglia e le ideologie. E' essenzialmente neutro e non guarda in faccia a nessuno. Si nutre sempre più dei media moderni, quelli per intenderci che hanno fatto rimbalzare l'intervista del generale Stanley Mc Christal su Rolling Stone fino a fargli perdere il posto. Bobbit distingue tra i giornali, che sono ormai in declino terminale e gli altri media, che godono di ottima salute e possono spazzare via Governi trasversalmente e globalmente come una perturbazione attraversa un continente. Il fatto è, come ha rilevato Nick Cohen, editorialista dell'Observer , che le notizie devono però avere sostanza e che Internet, demolendo i profitti dei giornali, non solo sta uccidendo il giornalismo investigativo ma anche il buon giornalismo in generale. Un blogger o uno dei mille pseudocronisti che si affacciano sulla rete non potrà mai disporre delle risorse di una struttura editoriale né tantomeno del minimo di 25mila sterline necessarie per fare fronte a una causa per diffamazione o inaccuratezza. Per farvi fronte ci vogliono strutture editoriali che non solo possono verificare le fonti in modo incrociato, ma hanno le sostanze per pagare in caso di errori. Peraltro, la rete, tanto rutilante e pervasiva, non ha molto da aggiungere. Secondo Turi Munther, Ceo e fondatore di Demotix, il network aperto che unisce 3.000 reporter in 190 Paesi e che molti considerano l'avanguardia del giornalismo del XXI secolo, ha messo in chiaro che normalmente la rete non fa che rimbalzare e rielaborare nel 95% dei casi notizie già note. La rete nella sua massiccia pervasività è in fondo un po' come la Tv, che amplifica, invade, ripete e martella gli ascoltatori ma sul fronte news è come un cane che abbaia ma non morde. Andrew Sparrow, il giornalista del Guardian che ha seguito sul website del quotidiano inglese tutte le elezioni britanniche del 2010 sulla rete, stando praticamente imbullonato per 40 giorni alla sua scrivania, ha messo in chiaro che la rete ha amplificato enormemente le elezioni, forgiando, rispetto alle elezioni del 2005 e del 2000, un pubblico sempre più cosciente di sé e meno ossequioso verso i giornalisti. Ciò non ha però modificato il risultato, proprio perchè non ha dato una vera direzione ma ha moltiplicato un bailamme di opinioni. La risposte definitiva viene forse dal professor Coleman, secondo cui la rete ha cambiato il paradigma, creando un pubblico di utilizzatori più ludico e disincantato che non si aspetta risposte definitive e seriose del giornalismo di una volta. Quello era un giornalismo a tesi in cerca di verità e soluzioni. Questo è un mondo aperto, "interpersonale" in cui tutto può essere rimesso in discussione e contestato in qualsiasi momento.
«Il Sole 24 Ore» del 12 luglio 2010

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