Il bebè in braccio non più alla mamma ma al medico che l’ha realizzato in laboratorio. È la nuova icona della generazione umana, imposta dai tecnoscienziati. E la vita diventa «cosa»
di Assuntina Morresi
Negli
Un medico con il camice e la mascherina, che solleva fra le mani un neonato: è la nuova icona della maternità, quella del dottore – anziché della mamma – con il figlio in braccio. Un’immagine ricorrente quando si tratta della fecondazione in vitro, che spuntava qua e là fra le centinaia di diapositive proiettate durante il recente convegno internazionale dell’Eshre, la Società europea di riproduzione umana ed embriologia, che si è tenuto a Roma.
E’ un’istantanea che riassume bene il contenuto del congresso, e che ne dà una potente chiave di lettura. I numeri presentati, gli argomenti affrontati, le tecniche illustrate e le prospettive suggerite per il futuro: tutto ciò di cui si è parlato non si può capire fino in fondo se non si tiene conto della rappresentazione simbolica della maternità data da quell’immagine. È il medico da solo che mostra al mondo il bambino. Non è ritratto insieme ai genitori, e non potrebbe esserlo, visto che con le nuove tecniche i 'padri' e le 'madri' sono molteplici, sempre più sfuggenti e difficili da individuare: possono essere sociali, biologici, donatori o, più spesso, venditori di gameti, affittuari di uteri, single, coppie omosessuali... E come chiamare quelle donne che ricevono l’ovocita 'fresco' dalle figlie o dalle nipoti (la procedura è descritta come donazione intergenerazionale di gameti)? Ma potremmo continuare a lungo nell’elenco dellle 'forme parentali' oggi possibili in laboratorio ...
In altre parole, le tecniche di fecondazione in vitro disegnano un nuovo percorso di maternità, nel quale l’attore principale è il medico/tecnoscienziato, ma dove all’inizio ci sono solo cellule, 'progetti di vita' o 'vite potenziali', embrioni che acquisteranno valore solamente se diventeranno bambini in braccio, possibilmente sani. Non a caso viene specificato con insistenza, da una parte del mondo scientifico, che la gravidanza inizia con l’annidamento dell’embrione nell’utero, e non con il concepimento: una distinzione di cui si capisce il senso se si fa riferimento alla fecondazione in vitro. Riesce difficile, infatti, pensare a una gravidanza iniziata guardando qualche embrione di poche cellule attraverso l’obiettivo del microscopio, difficile anche per chi quel figlio lo sta disperatamente cercando. Ma se gravidanza non è, allora quello in corso può solamente essere un processo di sviluppo cellulare, che acquisterà importanza solo se andrà avanti correttamente.
Un concepimento in laboratorio implica poi l’uso di termini da addetti ai lavori per indicare i nuovi esseri umani, che in una gravidanza naturale non ci sarebbe bisogno di definire. Si parlerà di pre-zigoti, zigoti, morule, blastocisti: le immagini al microscopio non riescono a rendere conto dell’enorme complessità – per larghissima parte ancora misteriosa – di quanto sta accadendo. Il problema principale in questa fase è produrre un numero di embrioni tali da poterne scegliere i migliori, per poi trasferirli in utero. Che senso ha allora cercare di formare il numero minimo di embrioni, per perderne il meno possibile, come indica la legge 40? L’obiettivo è invece averne a disposizione a sufficienza per garantire la scelta del migliore (il «best embryo», come ormai si usa dire), e poter essere liberi di disporre degli altri come meglio si crede. Non acaso il verbo utilizzato più spesso dagli addetti alla provetta accanto alla parola 'embrioni' è 'produrre'. Come un oggetto.
E’ un’istantanea che riassume bene il contenuto del congresso, e che ne dà una potente chiave di lettura. I numeri presentati, gli argomenti affrontati, le tecniche illustrate e le prospettive suggerite per il futuro: tutto ciò di cui si è parlato non si può capire fino in fondo se non si tiene conto della rappresentazione simbolica della maternità data da quell’immagine. È il medico da solo che mostra al mondo il bambino. Non è ritratto insieme ai genitori, e non potrebbe esserlo, visto che con le nuove tecniche i 'padri' e le 'madri' sono molteplici, sempre più sfuggenti e difficili da individuare: possono essere sociali, biologici, donatori o, più spesso, venditori di gameti, affittuari di uteri, single, coppie omosessuali... E come chiamare quelle donne che ricevono l’ovocita 'fresco' dalle figlie o dalle nipoti (la procedura è descritta come donazione intergenerazionale di gameti)? Ma potremmo continuare a lungo nell’elenco dellle 'forme parentali' oggi possibili in laboratorio ...
In altre parole, le tecniche di fecondazione in vitro disegnano un nuovo percorso di maternità, nel quale l’attore principale è il medico/tecnoscienziato, ma dove all’inizio ci sono solo cellule, 'progetti di vita' o 'vite potenziali', embrioni che acquisteranno valore solamente se diventeranno bambini in braccio, possibilmente sani. Non a caso viene specificato con insistenza, da una parte del mondo scientifico, che la gravidanza inizia con l’annidamento dell’embrione nell’utero, e non con il concepimento: una distinzione di cui si capisce il senso se si fa riferimento alla fecondazione in vitro. Riesce difficile, infatti, pensare a una gravidanza iniziata guardando qualche embrione di poche cellule attraverso l’obiettivo del microscopio, difficile anche per chi quel figlio lo sta disperatamente cercando. Ma se gravidanza non è, allora quello in corso può solamente essere un processo di sviluppo cellulare, che acquisterà importanza solo se andrà avanti correttamente.
Un concepimento in laboratorio implica poi l’uso di termini da addetti ai lavori per indicare i nuovi esseri umani, che in una gravidanza naturale non ci sarebbe bisogno di definire. Si parlerà di pre-zigoti, zigoti, morule, blastocisti: le immagini al microscopio non riescono a rendere conto dell’enorme complessità – per larghissima parte ancora misteriosa – di quanto sta accadendo. Il problema principale in questa fase è produrre un numero di embrioni tali da poterne scegliere i migliori, per poi trasferirli in utero. Che senso ha allora cercare di formare il numero minimo di embrioni, per perderne il meno possibile, come indica la legge 40? L’obiettivo è invece averne a disposizione a sufficienza per garantire la scelta del migliore (il «best embryo», come ormai si usa dire), e poter essere liberi di disporre degli altri come meglio si crede. Non acaso il verbo utilizzato più spesso dagli addetti alla provetta accanto alla parola 'embrioni' è 'produrre'. Come un oggetto.
«Avvenire» dell'8 luglio 2010
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