Fu il poeta mantovano autore dell’Eneide a riprendere il mito greco per legittimare - attraverso il viaggio di Enea agli inferi alla ricerca del padre Anchise - la figura di Ottaviano Augusto. Nella realtà, le Sibille erano giovani vergini e i loro vaticini avevano anche peso politico
di Aristide Malnati
Il mistero della Sibilla cumana porta con un balzo di millenni a raccontare uno dei miti più insoliti, eppure più radicati del vasto pantheon delle religioni del mondo classico; e ci aggancia al cupo mondo degli inferi, popolato di figure demoniache e polimorfe, espressione concreta della fantasia creativa dei nostri antenati, che tanto avrebbe influenzato anche le descrizioni dell’oltretomba ad opera dei pensatori cristiani della Patristica e della Scolastica. Colui che sicuramente ha fornito una descrizione chiara ed esaustiva delle molte versioni parcellizzate della Sibilla cumana, è Virgilio, insuperabile nel riprendere il mito greco e, conferendogli una patina di romanità, nell’utilizzarlo a motore legittimatore della figura di Ottaviano Augusto. Alla Sibilla Virgilio dedica la parte iniziale del VI libro dell’Eneide, quando Enea, eroe troiano, sbarcato in Italia e destinato a fondare Roma “caput mundi”, decide di entrare nel mondo degli inferi per incontrare il padre Anchise e gli eroi del mondo omerico, defunti e simbolo di un’età dell’oro, la cui purezza sarebbe stata di buon auspicio per l’importante compito, che il figlio di Anchise da Venere era destinato a portare a termine. La sibilla fungeva quindi quasi da viatico, da imprimatur iniziale di un percorso voluto dagli dèi; già altre simili figure profetiche, dallo stesso nome evocativo di etimo a noi ignoto, erano presenti nella mitologia greca, punto di partenza per il dotto poeta mantovano; e dunque la presenza di una sibilla a Cuma (piccola frazione vicino a Pozzuoli) era un elemento cardine nel sottolineare l’operazione di sincresi, che portava l’articolato mondo olimpico ellenico a completare le divinità avite, un po’ grezze per la verità, dei “patres” latini.
Il titolo di Sibilla era proprio di una figura religiosa di prestigio: la sacerdotessa di Apollo e di Ecate, (quest’ultima una divinità notturna legata alla Luna e di provenienza mediorientale): simili caratteristiche ne accentuavano il legame con il mondo della notte, degli inferi e del mistero irrazionale, esaltato da riti evocativi, guidati da officianti del culto particolarmente ispirati, alterati da sostanze allucinogene e quasi divorati da una sorta di sacra follia, la “mania” o il sacro “furor”, alla base del mondo dell’al di là. La Sibilla cumana poi svolgeva la sua attività oracolare, preparatoria a qualsiasi contatto (anche onirico) con l’oltretomba, in un contesto paesaggistico assai evocativo: nei pressi del Lago d’Averno, in un antro oscuro e labirintico, in cui la sacerdotessa vaticinava i suoi responsi, trascrivendoli in esametri su foglie di palma; responsi sovente di difficile decriptazione, che lasciavano il richiedente nell’angoscia dell’incapacità interpretativa: si parla tutt’oggi di responsi sibillini e i libri sibillini, una 'summa' di messaggi criptici di varia natura sono dei testi leggendari, simbolici dell’impossibilità di conoscere e interpretare correttamente il fatum, la volontà degli dèi comunque Al di fuori della valenza mitologica, che ammantava la Sibilla di un velo impalpabile di mistero, le sacerdotesse cumane erano personaggi reali, giovani vergini, che rimanevano tali e svolgevano questo ruolo per tutta la vita, completamente devote ad Apollo ed Ecate, e in quanto tali insignite di venerazione particolare, anche perché i loro responsi potevano avere determinante peso politico.
Il titolo di Sibilla era proprio di una figura religiosa di prestigio: la sacerdotessa di Apollo e di Ecate, (quest’ultima una divinità notturna legata alla Luna e di provenienza mediorientale): simili caratteristiche ne accentuavano il legame con il mondo della notte, degli inferi e del mistero irrazionale, esaltato da riti evocativi, guidati da officianti del culto particolarmente ispirati, alterati da sostanze allucinogene e quasi divorati da una sorta di sacra follia, la “mania” o il sacro “furor”, alla base del mondo dell’al di là. La Sibilla cumana poi svolgeva la sua attività oracolare, preparatoria a qualsiasi contatto (anche onirico) con l’oltretomba, in un contesto paesaggistico assai evocativo: nei pressi del Lago d’Averno, in un antro oscuro e labirintico, in cui la sacerdotessa vaticinava i suoi responsi, trascrivendoli in esametri su foglie di palma; responsi sovente di difficile decriptazione, che lasciavano il richiedente nell’angoscia dell’incapacità interpretativa: si parla tutt’oggi di responsi sibillini e i libri sibillini, una 'summa' di messaggi criptici di varia natura sono dei testi leggendari, simbolici dell’impossibilità di conoscere e interpretare correttamente il fatum, la volontà degli dèi comunque Al di fuori della valenza mitologica, che ammantava la Sibilla di un velo impalpabile di mistero, le sacerdotesse cumane erano personaggi reali, giovani vergini, che rimanevano tali e svolgevano questo ruolo per tutta la vita, completamente devote ad Apollo ed Ecate, e in quanto tali insignite di venerazione particolare, anche perché i loro responsi potevano avere determinante peso politico.
«Avvenire» dell'11 luglio 2010
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