Punto a capo
di Annalena Benini
L’Istat e l’Accademia della Crusca hanno studiato i temi degli studenti alla maturità, scoprendo che i ragazzi non sanno scrivere in italiano. Non si preoccupano dei nessi logici fra un blocco di testo e l’altro, ricorrono continuamente alle virgolette, sbagliano i tempi e i modi dei verbi, la punteggiatura, hanno un linguaggio povero, non vanno mai a capo. E’ la descrizione di un qualunque articolo di giornale, quindi non c’è da preoccuparsi. La punteggiatura, però, è un’entità misteriosa, un patrimonio che ognuno amministra secondo ispirazione.
Quand’è che si va a capo? Secondo i prontuari di punteggiatura quando, dopo il punto, c’è uno stacco netto con la frase successiva. In realtà quando ci pare. Leggendo solo la prima pagina dei cinque romanzi finalisti al Premio Strega di questa sera, si è notato che: Paolo Sorrentino va a capo a ogni riga (ma succede anche che non metta un punto per due pagine di fila), Matteo Nucci e Lorenzo Pavolini non vanno mai a capo, Silvia Avallone e Antonio Pennacchi vanno moderatamente a capo. Ci sono poi libri molto corti, tipo “Seta” di Alessandro Baricco, in cui andare a capo è una necessità, anzi spesso si mette un punto e si passa alla pagina successiva. Come diceva Totò: “Punto. Due punti. Punto e virgola. Ma sì, fai vedere che abbondiamo”, la punteggiatura è una questione di stile.
Se uomini o donne in vena di corteggiamenti mandano messaggi sul cellulare con puntini di sospensione (non sanno più come andare avanti con la frase e vogliono lasciare un’aura di mistero), punti esclamativi (sono esagitati), parole tra virgolette (non conoscono la parola giusta da usare e ne mettono un’altra, sbagliata, ma strizzandoti l’occhio: hai capito, bellezza, cosa intendevo?) o faccine che sorridono (sono diventate un segno di interpunzione, anzi è possibile che siano state usate nei temi della maturità), il consiglio non ortografico è: bocciare e sparire.
Andando a capo, si deve parlare del dramma del punto e virgola: Cormac McCarthy lo detesta, Kurt Vonnegut lo disprezzava: “Non usatelo, è un ermafrodito travestito che non rappresenta assolutamente nulla. Dimostra solo che avete fatto l’università. Quando Hemingway si è ucciso, ha messo un punto fermo alla sua vita. La vecchiaia, lei, assomiglia piuttosto a un punto e virgola”, John Irving invece lo usa spesso e ne discuteva con Vonnegut: “Nel mio caso, gli ribattevo, il punto e virgola deriva dall’esempio di Dickens e in particolare del suo periodare ampio e complesso, al che Kurt di solito mi rispondeva facendomi un sorriso benevolo, o dandomi dei colpetti sulla testa”.
Succede quindi di sostituire il punto e virgola con i due punti, per non sembrare reazionari: Lynne Truss, ex correttrice di bozze che sul Daily Telegraph teneva una rubrica di punteggiatura e poi ne ha fatto un libro che in Inghilterra ha venduto più di un milione di copie, scalzando dalla classifica Harry Potter, avverte: “Dopo i due punti si consegnano le merci che sono state promesse prima dei due punti”.
Quand’è che si va a capo? Secondo i prontuari di punteggiatura quando, dopo il punto, c’è uno stacco netto con la frase successiva. In realtà quando ci pare. Leggendo solo la prima pagina dei cinque romanzi finalisti al Premio Strega di questa sera, si è notato che: Paolo Sorrentino va a capo a ogni riga (ma succede anche che non metta un punto per due pagine di fila), Matteo Nucci e Lorenzo Pavolini non vanno mai a capo, Silvia Avallone e Antonio Pennacchi vanno moderatamente a capo. Ci sono poi libri molto corti, tipo “Seta” di Alessandro Baricco, in cui andare a capo è una necessità, anzi spesso si mette un punto e si passa alla pagina successiva. Come diceva Totò: “Punto. Due punti. Punto e virgola. Ma sì, fai vedere che abbondiamo”, la punteggiatura è una questione di stile.
Se uomini o donne in vena di corteggiamenti mandano messaggi sul cellulare con puntini di sospensione (non sanno più come andare avanti con la frase e vogliono lasciare un’aura di mistero), punti esclamativi (sono esagitati), parole tra virgolette (non conoscono la parola giusta da usare e ne mettono un’altra, sbagliata, ma strizzandoti l’occhio: hai capito, bellezza, cosa intendevo?) o faccine che sorridono (sono diventate un segno di interpunzione, anzi è possibile che siano state usate nei temi della maturità), il consiglio non ortografico è: bocciare e sparire.
Andando a capo, si deve parlare del dramma del punto e virgola: Cormac McCarthy lo detesta, Kurt Vonnegut lo disprezzava: “Non usatelo, è un ermafrodito travestito che non rappresenta assolutamente nulla. Dimostra solo che avete fatto l’università. Quando Hemingway si è ucciso, ha messo un punto fermo alla sua vita. La vecchiaia, lei, assomiglia piuttosto a un punto e virgola”, John Irving invece lo usa spesso e ne discuteva con Vonnegut: “Nel mio caso, gli ribattevo, il punto e virgola deriva dall’esempio di Dickens e in particolare del suo periodare ampio e complesso, al che Kurt di solito mi rispondeva facendomi un sorriso benevolo, o dandomi dei colpetti sulla testa”.
Succede quindi di sostituire il punto e virgola con i due punti, per non sembrare reazionari: Lynne Truss, ex correttrice di bozze che sul Daily Telegraph teneva una rubrica di punteggiatura e poi ne ha fatto un libro che in Inghilterra ha venduto più di un milione di copie, scalzando dalla classifica Harry Potter, avverte: “Dopo i due punti si consegnano le merci che sono state promesse prima dei due punti”.
«Il Foglio» del 3 luglio 2010
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