01 luglio 2010

Così in Germania la vita torna «disponibile»

La clamorosa sentenza con la quale nei giorni scorsi la Corte federale tedesca ha autorizzato a posteriori la possibilità di procurare la morte di un paziente vegetativo apre formidabili interrogativi. A cominciare dalle tutele che il diritto non riesce più a porre sulla vita più fragile, smantellate nel nome di un principio di autodeterminazione così astratto da diventare persino spietato. Con il beneplacito dei giudici
di Alberto Gambino
Mai sino alla sentenza della Corte federale della scorsa settimana l’ordinamento giuridico tedesco aveva tollerato che a una persona con disabilità (nel caso, in stato vegetativo persistente) fosse sospesa l’idratazione e l’alimentazione al fine di assecondare il suo desiderio ad una 'dolce morte'. Tale situazione che, almeno astrattamente sarebbe rientrata nei reati di eutanasia attiva e di suicidio assistito, è stata considerata «legittima» con la conseguente assoluzione dell’avvocato che aveva 'consigliato' di recidere il sondino di alimentazione. Tale comportamento – a detta dei magistrati tedeschi – avrebbe infatti attuato il cosiddetto 'principio di autodeterminazione' del paziente.
In particolare, i giudici hanno distinto tra gli atti volti a procurare direttamente la morte del paziente (la cosiddetta 'eutanasia attiva') e gli atti volti a sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiali considerati trattamenti medici forzati, dunque rifiutabili dal paziente.
Il problema – già rilevato in Italia nel caso Englaro – è che la creazione giurisprudenziale del 'diritto di autodeterminazione' ha drammaticamente snaturato proprio il principio dal quale lo si fa derivare – la libertà di rifiuto del trattamento sanitario – assegnando alla volontà dell’individuo il potere di disporre modi e collaborazioni circa l’esito della propria vita. Con la conseguenza che la libertà di rifiuto del trattamento terapeutico slitta nel rifiuto di assistenza umanitaria. Si tenta cioè di sostituire la libertà della persona con la volontà dell’individuo per dare fondamento teoretico dei diritti indisponibili – a cominciare dal diritto alla vita – con il risultato di renderli 'disponibili' e contrattualizzabili. Ciò porta ad assegnare a chi assiste il paziente anche il ruolo di esecutore della sua volontà. Questo l’errore più significativo nel quale è incorsa anche la Corte federale tedesca.
Non è corretto, infatti, sul piano giuridico inquadrare il distacco del sondino di alimentazione come il legittimo rifiuto di un trattamento medico. Si confonde la rinuncia a un trattamento sanitario (che comprende anche l’introduzione di un presidio) – atto personale e non delegabile – con la sospensione della somministrazione del sostentamento vitale (che riguarda l’idratazione e l’alimentazione attuata anche artificialmente), attuato da parte del soggetto che assiste il paziente. Ora, se è regola deontologica, prevista diffusamente, che ogni trattamento sanitario sia attivato previo consenso del paziente, non si può invece chiedere a chi assiste il malato di porre in essere la disattivazione di trattamenti sanitari finalizzati alla salvaguardia della vita. Se infatti fosse la volontà del paziente a determinare il comportamento di chi presta cura agli ammalati, questi si ridurrebbero a meri esecutori dei desideri, anche eutanasici, del paziente, e le case di cura finirebbero per fungere anche da case della 'buona morte'.
Il diritto e i codici deontologici sin dai tempi di Ippocrate escludono che chi assiste i malati si renda compartecipe di una scelta del paziente ove questa sia volta a trattamenti diretti a provocarne la morte. Ciò che allora è in discussione non è il rifiuto delle cure, già ampiamente garantito come spazio di libertà potendo in qualsiasi momento il paziente o chi per lui rinunciare al ricovero. L’errore di impostazione, ora anche della giurisprudenza tedesca, è ritenere che la libertà individuale, spazio da preservare anche ove non condivisibile sul piano morale, possa sempre tradursi in vere proprie pretese giuridiche che obbligano l’ordinamento a conformarsi a esse. Il richiamo a una libera determinazione così radicalizzata finisce per confliggere con i valori di fondo degli ordinamenti occidentali, e in particolare con lo stesso ordinamento tedesco, che distinguono con saggezza ed equilibrio tra scelte del singolo e scelte dell’ordinamento, secondo una scala di valori dove al primo posto risiede la vita dei cittadini.
Il delicato bilanciamento tra libertà dell’individuo e valori di fondo della comunità si è, infatti, sin qui realizzato lasciando al primo i più ampi spazi purché la sua azione sia accettata dai consociati. Ove invece operi un giudizio di disvalore, l’azione del singolo rimane circoscritta entro legittimi spazi di libertà, ma non potrà mai diventare pretesa giuridica in grado di obbligare altri consociati.
Purtroppo, anche nel caso tedesco, come per la vicenda Englaro, tale principio è stato capovolto, assegnando una giustificazione legale a un atto intrinsecamente volto a interrompere una vita umana. Si tratta di una soluzione eticamente e giuridicamente inaccettabile in quanto foriera di nefaste conseguenze: l’anarchia dei valori ha infatti sempre finito per rendere i deboli ancora più indifesi e i malati ancora più fragili.
«Avvenire» del 1 luglio 2010

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