La fede non può essere 'vista? Protesta a Roma
di Marina Corradi
È arrivata la nuova maestra. È abilitata all’insegnamento, ha alle spalle anni in cattedra, secondo le graduatorie il posto tocca a lei. Ma quando entra in aula, in una elementare statale di Roma, delle madri corrono dalla preside. A protestare, indignate. Perché quella maestra, è una suora.
Visibilmente una suora: porta perfino la veste nera sopra al velo bianco.
Troppo, davvero, per quelle mamme ' laiche e democratiche', che ora minacciano ricorso al Tar.
Chi ha paura di una suora?
Quella di Roma è una donna di 61 anni, i capelli grigi, l’aria, a dire il vero, mite. Ex allieva del cardinale Martini, neanche porta sulla veste quel crocefisso attorno al quale oggi tanto animatamente si discute.
Sorride tranquilla: « Tanto ce l’ho qui dentro, nel mio cuore » . E dunque la storia di Roma nemmeno è una questione di segni esibiti o rifiutati. « Cosa risponderà » , trema invece una madre, « se mio figlio chiedesse come è nato l’universo? » Già. Non le verrà mica in mente, alla sorella, di accennare, accanto alla corretta idea evoluzionista, l’assurda ipotesi di un Creatore? (Dove si vede come certo laicismo radicale sia in realtà un credo integralista, spaventato all’idea del confronto con l’altro).
E non importa se la legge italiana non preveda – e ci mancherebbe altro – la esclusione dei religiosi dall’insegnamento, in un’inimmaginabile discriminazione fra cittadini e sotto- cittadini.
Tuttavia in qualcuno permane un meccanismo automatico, quasi pavloviano, per cui quell’abito è intollerabile.
L’abito che sta a indicare, netta, ben visibile, l’appartenenza cristiana.
Altrettanto cristiani però sono, nelle loro vesti borghesi, migliaia di maestri e professori nelle nostre scuole. Qual è il punto di attrito, allora?
Forse l’abito di una suora come segno indiscreto e visibile della propria fede.
Che è ammessa finché sia faccenda pudica, privata, mantenuta estranea alla vita quotidiana. Finché stia in chiesa e non si immischi di cose concrete come la politica, o l’educazione.
Come farebbe, altrimenti, un maestro che manifestamente creda in un Dio a presentare agli alunni l’umano scibile con la dovuta neutralità, con la necessaria prudente equidistanza da ogni visione del mondo? Come farebbe a insegnare che nulla è oggettivamente vero, ma tutto invece opinabile, secondo l’imperativo del relativismo in cui oggi, coscientemente o no, si crescono i figli?
Una suora in cattedra, questo no. Il rigurgito di una sorta di razzismo laico. No, nemmeno se non porta il crocefisso sul petto: tanto ce l’ha nel cuore, dice.
Peggio, direbbero quelle madri, se fossero più acute.
Perché un crocefisso di legno potrebbe anche essere lì, e non rappresentare niente.
Potrebbe restare sul muro di un’aula a impolverarsi, innocuo sotto a sguardi abituati. Ma se davvero uno ce l’ha, come dice la suora di Roma, nel cuore, allora ha un’attenzione all’altro che meraviglia, col tempo, anche i bambini di una chiassosa classe elementare. Perché quella veste e quella croce si testimoniano nella passione all’altro. Perfino al ragazzo dell’ultimo banco, apparentemente il peggiore. E quanta ce ne vorrebbe, di questa passione, in certe nostre aule di ragazzi lasciati soli, di figli bulli per noia.
Visibilmente una suora: porta perfino la veste nera sopra al velo bianco.
Troppo, davvero, per quelle mamme ' laiche e democratiche', che ora minacciano ricorso al Tar.
Chi ha paura di una suora?
Quella di Roma è una donna di 61 anni, i capelli grigi, l’aria, a dire il vero, mite. Ex allieva del cardinale Martini, neanche porta sulla veste quel crocefisso attorno al quale oggi tanto animatamente si discute.
Sorride tranquilla: « Tanto ce l’ho qui dentro, nel mio cuore » . E dunque la storia di Roma nemmeno è una questione di segni esibiti o rifiutati. « Cosa risponderà » , trema invece una madre, « se mio figlio chiedesse come è nato l’universo? » Già. Non le verrà mica in mente, alla sorella, di accennare, accanto alla corretta idea evoluzionista, l’assurda ipotesi di un Creatore? (Dove si vede come certo laicismo radicale sia in realtà un credo integralista, spaventato all’idea del confronto con l’altro).
E non importa se la legge italiana non preveda – e ci mancherebbe altro – la esclusione dei religiosi dall’insegnamento, in un’inimmaginabile discriminazione fra cittadini e sotto- cittadini.
Tuttavia in qualcuno permane un meccanismo automatico, quasi pavloviano, per cui quell’abito è intollerabile.
L’abito che sta a indicare, netta, ben visibile, l’appartenenza cristiana.
Altrettanto cristiani però sono, nelle loro vesti borghesi, migliaia di maestri e professori nelle nostre scuole. Qual è il punto di attrito, allora?
Forse l’abito di una suora come segno indiscreto e visibile della propria fede.
Che è ammessa finché sia faccenda pudica, privata, mantenuta estranea alla vita quotidiana. Finché stia in chiesa e non si immischi di cose concrete come la politica, o l’educazione.
Come farebbe, altrimenti, un maestro che manifestamente creda in un Dio a presentare agli alunni l’umano scibile con la dovuta neutralità, con la necessaria prudente equidistanza da ogni visione del mondo? Come farebbe a insegnare che nulla è oggettivamente vero, ma tutto invece opinabile, secondo l’imperativo del relativismo in cui oggi, coscientemente o no, si crescono i figli?
Una suora in cattedra, questo no. Il rigurgito di una sorta di razzismo laico. No, nemmeno se non porta il crocefisso sul petto: tanto ce l’ha nel cuore, dice.
Peggio, direbbero quelle madri, se fossero più acute.
Perché un crocefisso di legno potrebbe anche essere lì, e non rappresentare niente.
Potrebbe restare sul muro di un’aula a impolverarsi, innocuo sotto a sguardi abituati. Ma se davvero uno ce l’ha, come dice la suora di Roma, nel cuore, allora ha un’attenzione all’altro che meraviglia, col tempo, anche i bambini di una chiassosa classe elementare. Perché quella veste e quella croce si testimoniano nella passione all’altro. Perfino al ragazzo dell’ultimo banco, apparentemente il peggiore. E quanta ce ne vorrebbe, di questa passione, in certe nostre aule di ragazzi lasciati soli, di figli bulli per noia.
«Avvenire» dell'11 dicembre 2009
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