11 dicembre 2009

Princìpi condivisi, l’argine alla tecno-scienza

Come venire a capo di approcci e progetti inconciliabili sulla vita umana? Riconoscendo una base indiscutibile di riferimenti comuni Senza le eccezioni che, invece, c’è chi ammette
di Francesco Botturi
Il piccolo volume di Stefano Semplici, docente di Etica sociale presso l’Università di Roma Tor Vergata e membro del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco, Undici tesi di bioetica (Morcelliana, Brescia 2009) merita un’attenta considerazione non solo in ragione delle sue tesi, ma soprattutto per lo sforzo di metodo e l’indicazione prospettica che contiene.
Il chiaro intendimento dell’autore è di risalire al piano comune delle questioni che dilacerano il dibattito contemporaneo e nazionale, come stratagemma che permette di vedere meglio non tanto la contrapposizione quanto le diverse e legittime preoccupazioni che orientano le differenti soluzioni. Un esercizio che non ha un intendimento irenico (cioè confusivo), ma di pacata valorizzazione di ciò che è comune in termini di problematica e di princìpi condivisi, in funzione di proposte bioetiche che non escludano ma tengano conto del maggior numero possibile di aspetti del problema; la miglior dottrina essendo, in tutti i campi, quella più esplicativa. Da questo, non secondario punto di vista, si può capire quanto ci sia ancora da fare a favore di uno stile soddisfacente di riflessione e di discussione (anche) in ambito bioetico.
Il presupposto generale del testo è la persuasione che vi sia una questione che abbraccia e sovrasta tutti, quella pervasività della tecno-scienza medica che viene a incidere sull’umano dall’esistenza prenatale al fine vita, sull’arco intero del vivere e su ogni sua scansione; con l’effetto drammatico di accendere conflitti che, irresolvibili da parte della tecno-scienza medica che li ha suscitati, vengono consegnati a una riflessione morale la quale, lungi dal dover rispondere solo a problemi specialistici e settoriali (come spesso si concepisce la competenza bioetica), è provocata a rimettere in questione i fondamenti stessi dell’antropologia e dell’etica. Donde, anche, il facile scadere in contrapposizioni che assomigliano a scontri guerreschi in cui non si intende fare prigionieri.
Proprio perché «ne va della vita e della morte, cioè della base stessa del patto sociale [...] gli effetti del pluralismo e dei suoi conflitti risultano tanto laceranti: ci si divide sull’idea di umanità che vogliamo essere, sulla possibilità che ci sia davvero un fondamentale bene 'comune' da proteggere» (p. 109).
Tuttavia Semplici insiste sul fatto che anche nelle questioni più dirimenti sono rinvenibili riferimenti comuni di principio. Anche nelle questioni di inizio vita, ad esempio, in discussione non è tanto il principio della proibizione di uccidere una persona innocente, riconosciuto dalla tante Carte e Dichiarazioni dei diritti dell’uomo, quanto «il significato delle prime fasi della vita umana», cioè il «confine più o meno inclusivo» del concepito nel genere umano e la «soglia» di rispetto dell’uomo come persona (pp. 19 e 20).
In questo difficile gioco tra principi e interpretazione dei fatti le soluzioni prospettate dall’autore non sono tutte condivisibili, oppure andrebbero più precisamente discusse. Come là dove, pur affermando il primato indiscutibile del principio del rispetto della vita, si ipotizzano «eccezioni» (benché non eutanasiche attive) in casi di sofferenza intollerabile (p. 94). Oppure là dove, a proposito dell’alleanza terapeutica, nella quale ha normalmente valore l’ultima parola del paziente, si ammette la sospendibilità su base di disposizione anticipata della alimentazione e della idratazione nello stato vegetativo (pp. 102 e 106).
Ma lungo il percorso del volume si apre una prospettiva che appare interessante.
Prospettiva che si può cogliere tirando una linea tra tutti quei momenti del ragionamento in cui si evidenzia che alla base del dibattito etico contemporaneo stanno gli inconciliati valori della vita e della libertà. È chiaro infatti che si fronteggiano due concezioni – secondo la terminologia invecchiata, ma a lungo influente, della «sacralità» e della «qualità» della vita – che non sembrano compatibili: da una parte i sostenitori di un «diritto naturale minimo», a salvaguardia della vita umana rispetto alla pretesa di una sua libera disponibilità, dall’altra, un’idea di libertà come «autodeterminazione», che avverte come incompatibile con la «dignità» umana ogni imposizione di obblighi o divieti a riguardo dei propri progetti di vita (p. 114).
E’ vero che da una parte e dall’altra si riconoscono limiti quanto all’indisponibilità del bene della vita e quanto al potere di disposizione da parte della libertà. Ma è anche vero che non sembra mai reperibile una figura che componga in modo convincente i due lati del problema: una sacralità della vita in quanto custode della libertà e una libertà (liberata dall’allucinazione dell’autodisposizione integrale) a servizio della vita. La prospettiva originale del testo va invece verso una figura più completa e feconda.
Nella quarta tesi sull’aborto Semplici scrive: «La libertà, quando si interroga su quel che 'deve' alla vita che non è in grado di reclamare diritti, si interroga sulla sua stessa, nascosta radice.
Ciascuno di noi è stato generato alla vita da altri [...]. La libertà non si produce, non si sostiene, non si rende felice da sé.
Non è importante, allora, che tutti vedano nello stesso modo 'la' natura dell’uomo. È importante l’esperienza che la capacità di autodeterminazione non esiste senza lo scambio della relazione e fuori dalla carne e dal corpo nei quali siamo nati e con i quali, un giorno, moriremo. Non si può volere la libertà se non volendo che la vita sia» (p. 43). Qui è prospettata a mio avviso una sintesi di vita e libertà di grande valore: l’una non può concepirsi, se non per grave errore, come esterna all’altra; l’una non può separarsi dall’altra, se non lacerando se stessa. È ragionevole pensare che dall’interno di questa prospettiva la riflessione bioetica cambierebbe significativamente l’impostazione dei suoi problemi.
«Avvenire» del 10 dicembre 2009

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