di Pierluigi Battista
La bocciatura svizzera dei minareti si gloria con nobili intenzioni stilistiche e architettoniche, come se davvero lo splendore autoctono dei laghi e delle montagne avesse bisogno di essere protetto dall'intrusione di torri sgraziate. Ma nel referendum svizzero hanno bocciato a maggioranza la libertà religiosa. Non la tutela del paesaggio, ma la guerra preventiva ai luoghi della preghiera. Si sentono minacciati, ma hanno fatto di un minareto il quartier generale del nemico. Non hanno chiesto il controllo di ciò che viene predicato e agitato nelle moschee. Non si sono ribellati a costumi in contrasto con i principi che ci sono più cari, dalla libertà della donna alla separazione tra politica e religione, dalla democrazia all'autonomia delle leggi civili dalle pretese di un testo sacro. E non hanno nemmeno vellicato un istinto di sicurezza, che in Svizzera, per la verità, ha meno ragioni di esasperarsi che da noi. No, hanno manifestato un'ostilità preventiva e non negoziabile ai luoghi di culto. Hanno identificato nel muezzin che dai minareti chiama i fedeli alla preghiera il nemico in agguato, il simbolo della minaccia, l'aggressione a un'identità culturale. E se c'è un esempio della tanto evocata tirannide della maggioranza, da ieri basta recarsi in Svizzera per contemplarne un modello. Hanno dato la risposta peggiore alla minaccia islamista che incombe sull' Europa, peggiore anche dell'illusione multiculturalista i cui contraccolpi negativi sono oggi al centro della riflessione autocritica in Gran Bretagna e in Olanda. Se pensavano a una ritorsione per le persecuzioni e le discriminazioni religiose che infestano i Paesi in cui la legge non è che l'applicazione letterale e senza scampo della sharia, hanno imboccato la strada più pericolosa. Più pericolosa per le minoranze religiose che nel mondo dell'integralismo islamico non hanno diritto di parlare, esprimersi, pregare, esporre i simboli del proprio credo. È ovvio che i primi a rammaricarsi per il risultato svizzero siano stati i vescovi: non si può rispondere con i divieti a chi considera un reato punibile con la morte il semplice possesso di un crocefisso. Non è con l'ostruzionismo che dovrebbe impedire la costruzione di un minareto che si possono salvare le chiese altrove saccheggiate e bruciate, o avere più a cuore la sorte degli ebrei e dei cristiani che sono costretti alla clandestinità della loro fede. Il divieto di minareto è inutilmente offensivo, controproducente. E colpisce il bersaglio sbagliato. Schiaccia i più moderati nelle braccia degli oltranzisti. Suscita risentimenti e vittimismi. Offre gratuitamente argomenti a chi parte per l'Europa con intenzioni ostili. Scambia catastroficamente la religione con la politica. Anziché chiedere conto agli islamici dei loro comportamenti, li umilia ostacolando le loro preghiere. Invece di esigere che tutto si svolga alla luce del sole, ricaccia nell'ombra chi vuole solo pregare e non ha intenzione di unirsi ai nemici dell'Occidente che considerano l'Europa terra di infedeli da combattere. Non c'è niente di male nella costruzione di una moschea (che in Svizzera sono già duecento, peraltro) o di un minareto. Il male è che le moschee diventino luogo di reclutamento del verbo fondamentalista, e questo male è destinato a inasprirsi dopo il referendum svizzero. Il male non è la libera preghiera, ma il velo islamico non liberamente scelto ma imposto da autorità onnipotenti, padri padroni, mariti prepotenti. Non è il suono del muezzin, ma l'ostentazione di un'ostilità minacciosa, come quella che ha conosciuto Milano quando, in gesto di sfida, si inscenò la genuflessione islamica davanti al sagrato del Duomo. Si capisce che alcuni esponenti della Lega esultino per il risultato svizzero. Si capisce un po' meno che siano seguiti da chi invece non ha fatto della purezza etnico-religiosa la propria bandiera. Che dovrebbe battersi per la reciprocità della libertà religiosa e perché sia garantita l'integrità delle chiese e delle sinagoghe, la sacralità dei luoghi di culto ovunque essi siano. Il resto è solo paura, terrore cieco. Ma la paura fa commettere errori imperdonabili. Anche se espressi a maggioranza. Anche se la democrazia smarrisce se stessa, se non tutela le minoranze. Comprese quelle che pregano in modo diverso.
«Corriere della Sera» del 30 novembre 2009
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