04 dicembre 2009

Ogni giorno ha il suo video

di Marco Belpoliti
Viviamo nella videocrazia totale, sotto il dominio pieno e incontrollato dei mezzi di riproduzione visiva e sonora. Un presidente del Consiglio registrato nella sua camera da letto con un cellulare, un killer che è colto in flagrante delitto da una telecamera, un viado che archivia nel computer gli incontri intimi, le maestre dell’asilo colte in flagrante con un videoriproduttore, la terza carica dello Stato registrata da una telecamera e da un microfono. Nessuno sfugge alla sorveglianza continua dei registratori audio e video, nemmeno i potenti, quelli che un tempo erano connotati dalla distanza, dall’invisibilità, dall’assenza.
Il potere come lontananza si è dissolto nella prossimità assoluta del vedere e del far vedere. Tutto è cominciato a metà degli Anni Sessanta quando la diffusione delle macchine fotografiche e dei registratori ha immerso le società occidentali in un vortice d’immagini e di risonanze; allora le piccole fotocamere, i registratori portatili, le cineprese, hanno iniziato a registrare la vita privata di molti, se non proprio di tutti. Come ha notato Christopher Lasch la stessa cultura del narcisismo si è fondata sulla procedura della registrazione, poiché, non solo gli strumenti visivi e sonori a disposizione del grande pubblico trascrivono l’esperienza, ma ne hanno alterato la qualità stessa, «dando a gran parte della vita moderna l’apparenza di un’immensa camera dell’eco, di una sala degli specchi».
Da almeno cinquant’anni tutti noi siamo inquadrati, lo sappiamo, e perciò guardiamo in camera sorridendo: Smile! Gli occhi artificiali di cineprese, macchine fotografiche, telecamere, cellulari, non ci colgono più impreparati. Il sorriso è sempre stampato sul nostro viso, e tutti conoscono oramai in modo certo l’angolatura che mette in luce il proprio lato migliore. L’accentuazione dell’elemento visivo, poi, ha fatto emergere l’autoesame di sé che secondo Lasch produce il narcisismo di massa, un evento che, mentre accentuava le prerogative degli individui, al tempo stesso li dissolveva in una serie successiva d’immagini. Grazie ai video dei nostri riproduttori tascabili, la nostra vita somiglia sempre più a quella di simulacri: le nostre immagini ci hanno sostituito, così che il problema diventa quello di somigliare a esse, e non più viceversa, verificare che le immagini ci somiglino.
Quando non ci saremo più quelle registrazioni esisteranno ancora, archiviate per sempre, in una sorta di limbo virtuale dove l’eternità somiglierà sempre più al quarto d’ora di notorietà evocato da Andy Warhol. Del resto, l’artista americano è il vero profeta del XXI secolo; lui ha dimostrato con film che durano ore e ore, registrando i minimi spostamenti di un uomo che dorme o la facciata atona di un grattacielo di New York, che ogni immagine è insignificante in sé e al tempo stesso ha un valore assoluto. Si tratta di quella «immanenza delle immagini» di cui parla Jean Baudrillard a proposito dell’opera dell’illustratore di Pittsburgh: inespressività meticolosa e volontà di insignificanza, che poi è la versione contemporanea dell’antica volontà di potenza. L’implacabile democrazia delle immagini, in cui siamo immersi, fa sì che il video di un efferato delitto e quello del compleanno di nostro figlio saranno in un futuro non troppo lontano perfettamente intercambiabili, poiché non avranno bisogno di alcun giudizio, di nessun supplemento emotivo: le immagini, simulacri di noi stessi, saranno e basta, al di là del bene e del male. Nel mondo delle immagini riprodotte senza fine, e senza giudizio morale, vale l’aforisma: «Il Niente è perfetto poiché non si oppone a Niente».
«La Stampa» del 4 dicembre 2009

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