La consapevolezza dell’eternità matura attraverso l’analisi della memoria e del linguaggio. Il grande filosofo, consigliere di Benedetto XVI, affronta in un convegno i temi per eccellenza: esistenza del divino e immortalità
s. i. a.
Dio è «il grande rammemoratore». L’immagine di Dio che in quanto eterno tiene insieme il filo dei ricordi e delle esistenze, sarebbe piaciuta a Jorge Luis Borges. E Robert Spaemann, filosofo e teologo, porta una prova dell’esistenza di Dio attraverso questa immagine. Spaemann ha parlato ieri pomeriggio a Roma, all’apertura della conferenza «Dio Oggi», che raccoglie gli interventi di alcuni dei più attuali (e anche paradossali) pensatori dell’idea di Dio. Lo abbiamo incontrato poco prima della conferenza. L’ipotesi di Spaemann è la seguente. «Il passato - dice Spaemann - è fatto di ricordi, e anche il nostro futuro, una volta trascorso, sarà fatto di ricordi. I ricordi sono tutto quello che ci resta, si possono diradare ma non distruggere perché, come diceva Shakespeare: “what’s done cannot be undone”, ciò che è stato fatto non può essere annullato». Ma quando l’umanità sarà finita, la storia universale e le storie particolari estinte, quando non ci sarà nessun uomo che possa ricordare il passato, cosa succederà? Non saremo mai esistiti? Ovviamente no. Non possiamo pensare, anche noialtri medi esseri umani, noi che stamattina abbiamo fatto il caffè o che stiamo leggendo il giornale in tram, di non essere mai esistiti. Ecco, Spaemann dimostra che non si può pensare il passato, il futuro, e un presente che scorre, senza mettere in gioco l’idea di Dio, un garante eterno di ciò che è stato o che sarà: «Il pensiero ha bisogno dell’idea di Dio per poter parlare della realtà senza vedercela continuamente sfuggire di mano. Quando parliamo, lo facciamo dal punto di vista di un ricordo che è in noi, e che ha il suo picco nell’idea di Dio, un’idea di eternità che non ha rapporto con il contingente».
L’ipotesi di Spaemann è detta «dell’infinito futuro». E c’è anche un aspetto linguistico e grammaticale. Visto che «la nostra esperienza è immersa nel linguaggio ed è fatta di linguaggio usiamo una grammatica che è fatta teologicamente». La grammatica ha a che fare con il collegamento tra le parole, e il collegamento è un esercizio di memoria che ha come fondamento l’idea di Dio. Per dirla con Nietzsche: «Non possiamo liberarci di Dio finché continuiamo a credere nella grammatica». Insomma, per Spaemann «ogni verità è eterna», e l’eternità ha un’impronta divina. Parliamo e pensiamo come se Dio esistesse.
Ma questo non è il solo aspetto interessante del pensiero di Spaemann. Spaemann, nato nel 1927, da decenni in rapporto intellettuale con Benedetto XVI, è il più originale e raffinato dei filosofi contemporanei cattolici. Ha lavorato sul pensiero antico ma non è un tradizionalista, anzi nei suoi scritti si sente che ha digerito la filosofia contemporanea. Ad esempio: quando Spaemann afferma che la libertà vuol dire prendere la distanza da se stessi e dalla propria natura, si potrebbe pensare a un elogio alla società postumana, a un elogio del transgender, a una tipica idea postmoderna. E invece no, Spaemann vuol dire che bisogna abbandonare l’idea moderna del soddisfare a tutti i costi le passioni e i desideri, che bisogna accettare che ci sia qualcosa di più grande di questo io intelligente, insaziabile, martoriato e psicanalizzato. Per esempio qualcosa come un figlio, una famiglia, una comunità, una tradizione, persino un dovere. Insomma Spaemann è un interprete sorprendente dell’antico, che cita Aristotele e usa la sua razionalità.
Visto che è stato lo stesso Benedetto XVI a lanciare un’alleanza tra arte e religione chiediamo subito a Spaemann come si debba declinare questo rapporto: l’arte spesso si è allontanata dalla bellezza e ha cercato il brutto. «Ultimamente la devozione dei popoli si è legata al kitsch, tuttavia vorrei difendere un tantino il kitsch. C’è un kitsch innocente che non fa nulla di male, come quello di certe rappresentazioni religiose popolari. E poi c’è un kitsch cattivo. Il male del kitsch comincia quando l’artista punta a manifestare il suo sentimento che non è più religioso. “Chi vuol colpire il cuore, deve colpire la mente. Altrimenti va direttamente al cuore sì, ma finisce subito nella pancia” - Spaemann cita George Bernanos -. Ci sono artisti che tendono a presentare la propria idea di Gesù Cristo, ma i credenti molto raramente si sentono legati a queste rappresentazioni. Basterebbe vedere un’opera esposta nella galleria di Stoccarda, un Gesù Cristo dolente, ma che si trova in una campagna e non è riconoscibile. Non è il Cristo, è un uomo sofferente che rappresenta il Cristo. È l’immagine di una immagine. Una grande opera, perché evoca una memoria che è dentro tutti ma non è qualcosa di puramente soggettivo».
Ma la domanda fatale, quella che interviene sempre a chiunque si sia posto il problema Dio è: come fare a conciliare l’idea di un Dio buono con l’esistenza del male? Così Spaemann: «Non c’è altra risposta di quella che ha dato Giobbe. Protesta con Dio, e gli dice che i suoi guai sono ingiusti. Poi vengono gli amici di Giobbe e gli dicono “Dio non è ingiusto, hai fatto qualcosa di male”. Poi arriva Dio e disprezza gli amici di Giobbe, dice “non avete capito niente. Il mio servitore Giobbe è molto meglio di voi”. Il fatto che Giobbe protesta vuol dire che tiene ferma l’idea che Dio è giusto. Il male è un mistero. Ma c’è anche un’altra risposta. È la croce del Cristo, che non ha dato una spiegazione al problema del male, ma l’ha sopportato, nella sua carne. Una volta, in un’intervista allo Spiegel mi hanno chiesto: “Dov’era Dio ad Auschwitz?”. Ho risposto allora, e rispondo ancora così: “Sulla Croce”».
L’ipotesi di Spaemann è detta «dell’infinito futuro». E c’è anche un aspetto linguistico e grammaticale. Visto che «la nostra esperienza è immersa nel linguaggio ed è fatta di linguaggio usiamo una grammatica che è fatta teologicamente». La grammatica ha a che fare con il collegamento tra le parole, e il collegamento è un esercizio di memoria che ha come fondamento l’idea di Dio. Per dirla con Nietzsche: «Non possiamo liberarci di Dio finché continuiamo a credere nella grammatica». Insomma, per Spaemann «ogni verità è eterna», e l’eternità ha un’impronta divina. Parliamo e pensiamo come se Dio esistesse.
Ma questo non è il solo aspetto interessante del pensiero di Spaemann. Spaemann, nato nel 1927, da decenni in rapporto intellettuale con Benedetto XVI, è il più originale e raffinato dei filosofi contemporanei cattolici. Ha lavorato sul pensiero antico ma non è un tradizionalista, anzi nei suoi scritti si sente che ha digerito la filosofia contemporanea. Ad esempio: quando Spaemann afferma che la libertà vuol dire prendere la distanza da se stessi e dalla propria natura, si potrebbe pensare a un elogio alla società postumana, a un elogio del transgender, a una tipica idea postmoderna. E invece no, Spaemann vuol dire che bisogna abbandonare l’idea moderna del soddisfare a tutti i costi le passioni e i desideri, che bisogna accettare che ci sia qualcosa di più grande di questo io intelligente, insaziabile, martoriato e psicanalizzato. Per esempio qualcosa come un figlio, una famiglia, una comunità, una tradizione, persino un dovere. Insomma Spaemann è un interprete sorprendente dell’antico, che cita Aristotele e usa la sua razionalità.
Visto che è stato lo stesso Benedetto XVI a lanciare un’alleanza tra arte e religione chiediamo subito a Spaemann come si debba declinare questo rapporto: l’arte spesso si è allontanata dalla bellezza e ha cercato il brutto. «Ultimamente la devozione dei popoli si è legata al kitsch, tuttavia vorrei difendere un tantino il kitsch. C’è un kitsch innocente che non fa nulla di male, come quello di certe rappresentazioni religiose popolari. E poi c’è un kitsch cattivo. Il male del kitsch comincia quando l’artista punta a manifestare il suo sentimento che non è più religioso. “Chi vuol colpire il cuore, deve colpire la mente. Altrimenti va direttamente al cuore sì, ma finisce subito nella pancia” - Spaemann cita George Bernanos -. Ci sono artisti che tendono a presentare la propria idea di Gesù Cristo, ma i credenti molto raramente si sentono legati a queste rappresentazioni. Basterebbe vedere un’opera esposta nella galleria di Stoccarda, un Gesù Cristo dolente, ma che si trova in una campagna e non è riconoscibile. Non è il Cristo, è un uomo sofferente che rappresenta il Cristo. È l’immagine di una immagine. Una grande opera, perché evoca una memoria che è dentro tutti ma non è qualcosa di puramente soggettivo».
Ma la domanda fatale, quella che interviene sempre a chiunque si sia posto il problema Dio è: come fare a conciliare l’idea di un Dio buono con l’esistenza del male? Così Spaemann: «Non c’è altra risposta di quella che ha dato Giobbe. Protesta con Dio, e gli dice che i suoi guai sono ingiusti. Poi vengono gli amici di Giobbe e gli dicono “Dio non è ingiusto, hai fatto qualcosa di male”. Poi arriva Dio e disprezza gli amici di Giobbe, dice “non avete capito niente. Il mio servitore Giobbe è molto meglio di voi”. Il fatto che Giobbe protesta vuol dire che tiene ferma l’idea che Dio è giusto. Il male è un mistero. Ma c’è anche un’altra risposta. È la croce del Cristo, che non ha dato una spiegazione al problema del male, ma l’ha sopportato, nella sua carne. Una volta, in un’intervista allo Spiegel mi hanno chiesto: “Dov’era Dio ad Auschwitz?”. Ho risposto allora, e rispondo ancora così: “Sulla Croce”».
«Il Giornale» dell'11 dicembre 2009
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