Nelle scuole e nelle Accademie si celebra ancora il primato della teoria e della concettosità. Così si sono perse le capacità artigianali che facevano la differenza. Ma qualcosa oggi sta cambiando, soprattutto nel design
di Luca Beatrice
Il libro non è una novità editoriale, ma di urgente attualità è il suo enunciato. L’uomo artigiano di Richard Sennett, scritto nel 2008, edito all’inizio del 2009, ha anticipato un sommovimento che l’estetica contemporanea, dall’arte al design, dall’architettura alla musica, oggi raccoglie in pieno mettendo in crisi quasi mezzo secolo di minimalismo e rompendo definitivamente la convinzione che il fare sia ormai estraneo alla sfera della creazione. Sociologo, docente alla New York University e alla London School of Economy, autore di saggi quali L’uomo flessibile e La cultura del nuovo capitalismo, Sennett sostiene che la vecchia figura dell’homo faber, colui che sa fare con le proprie mani vantando perizia e conoscenza non comuni, è la salvezza contro la mediocrità del «basta che sia fatto», contro il diktat per cui nelle accademie e nelle scuole d’arte non si deve insegnare la perizia tecnica ma solo la speculazione pura disgiunta dall’oggetto finito. Oscillando tra presente e passato, Sennett raccontava storie affascinanti di antiche botteghe di pittura dove si sono formati i geni del Rinascimento, laboratori del legno ove operavano gli intagliatori degli Stradivari, saltando al presente delle cucine, fertili di inventiva e sperimentazione, e degli informatici capaci di mettere a punto programmi sofisticatissimi, altrettanto creativi e in senso lato «manuali». Unico filo che li lega, il talento, termine mortificato dall’ideologia teorica che, soprattutto nell’arte, ha dato la stura a migliaia di impostori e incapaci.
Non vuole essere questo un discorso passatista, ci mancherebbe. Dalle prime avanguardie del Novecento l’arte ha corso in un’unica direzione: uscire dall’opera tradizionale, smaterializzarsi dall’oggetto, inserire brandelli di realtà, possibilmente già esistenti, perché in una visione moderna non si può più essere schiavi dell’abilità tecnica e manuale.
Impossibile non tener conto del fattore provocazione: Duchamp sostituisce l’opera d'arte con il ready made e Picasso forza i limiti della «bella» pittura fino al punto da originare l’adagio popolare del «lo sapevo fare anche io». I guai veri sono cominciati dal Minimalismo in qua. Secondo i teorici della forma pura, l’arte avrebbe dovuto spogliarsi di qualsivoglia elemento connotativo e narrativo, non rappresentare nulla e rilasciare sole e semplici strutture. L’artista deve imporsi di non manipolare materia alcuna, ma affidare la realizzazione a terzi, in un processo meccanico e industriale di spersonalizzazione del prodotto (così fanno pesi massimi come Richard Serra e Carl Andre; oppure superstar come Damien Hirst o Jeff Koons). Qualsiasi altro gusto, bollato come artigiano, viene automaticamente rigettato. I musei d’arte contemporanea ospitano per la maggior parte prodotti di questa tipologia: le dimostrazioni di talento sono dunque bandite e dall’arte all’architettura, dal design all’Ikea, tutto serve a far prevalere la dittatura del minimalismo, dove le cose non devono dire nulla perché non hanno proprio nulla da dire.
Sennett rovescia tale assunto teorico. Per lui l’artista è prima di tutto un artigiano cui sta a cuore il lavoro ben fatto di per se stesso. Invece di asettici atelier popolati da assistenti al computer, torna alla bottega del falegname, circondato dai suoi apprendisti e dai suoi arnesi. Torna il criterio valutativo delle ore di lavoro, perché i tempi lunghi migliorano e impreziosiscono l’opera finita. «Voglio indagare - scrive Sennett - che cosa succede quando viene introdotta una separazione tra mano e testa, tra tecnica e scienza, tra arte e mestiere. Mostrerò come in questo caso sia la mente a soffrirne; intelligenza e capacità espressiva ne vengono entrambe compromesse».
Evviva il vecchio homo faber: è lui l’artista «nuovo» del Terzo Millennio. Per contro, visitate un museo d’arte contemporanea: spesso provoca una sensazione di stantio, sorpassato, mortifero. L’ideologia del vuoto toglie spazio alle opere, strutture metalliche, neon, carrozzerie, pile di cemento, accumulazioni di oggetti la cui realizzazione e allestimento è sempre delegata ad altri, mentre il rapporto diretto tra l’artefice e l’opera risulta basilare nella necessità esistenziale di quest’ultima.
Minimalismo, Arte Povera, concettuale hanno imposto la strategia di un prodotto globalizzato, sempre uguale in ogni angolo della terra, l’International Style ha ucciso l’emozione estetica e il bisogno di contemplazione. Leggendo Sennett si intuisce e si spera che questa triste storia sia giunta all’atto finale: si recupera invece il tipico, la materia del luogo e della tradizione, principale antidoto al brutto indifferenziato. La ceramica, la scultura lignea, il disegno fatto a mano nella pittura, la conoscenza tecnica dei materiali costituiscono un’autentica ricchezza contro quella cattiva qualità del lavoro, barometro di forme di indifferenza per la cultura materiale, e ragione in termini economici dell’indebolimento della motivazione di lavoratori sedati dall’assenza di competitività. Se l’arte è il tavolo a cui chiunque può sedersi senza averne le credenziali, a cosa servirà essere bravi e talentuosi?
Un tempo l’arte arrivava prima sulle cose e intuiva in anticipo i cambiamenti rischiando l’impopolarità. Oggi risulta il contrario e, tra i vari settori della creatività, finisce a fondo classifica. Un abito cucito a mano da un sarto vale molto più di una griffe prêt à porter. Un cuoco che utilizza materie prime del luogo la vince di gran lunga sui ristoranti dove servono pappette indefinibili dentro piatti quadrati. Il design, secondo la storica del ramo Cristina Morozzi, vive un paradosso: «nell’epoca della fretta e dell’immateriale riscopre il tempo lento del lavorare con le mani e la materia è di nuovo protagonista. I designer tornano nei laboratori a mettere le mani in pasta per creare pezzi unici e irripetibili» (da Over design over, Silvana, 2009).
Solo l’arte contemporanea è in colpevole ritardo. Pur non affrontando il tema direttamente, Sennett propone di recuperare lo spirito dell’Illuminismo adattandolo al nostro tempo, sollecitando l’attitudine al fare, il potenziamento delle proprie capacità, rincorrendo l’ossessione della qualità. Questo, solo questo, sarà opera d’arte.
Non vuole essere questo un discorso passatista, ci mancherebbe. Dalle prime avanguardie del Novecento l’arte ha corso in un’unica direzione: uscire dall’opera tradizionale, smaterializzarsi dall’oggetto, inserire brandelli di realtà, possibilmente già esistenti, perché in una visione moderna non si può più essere schiavi dell’abilità tecnica e manuale.
Impossibile non tener conto del fattore provocazione: Duchamp sostituisce l’opera d'arte con il ready made e Picasso forza i limiti della «bella» pittura fino al punto da originare l’adagio popolare del «lo sapevo fare anche io». I guai veri sono cominciati dal Minimalismo in qua. Secondo i teorici della forma pura, l’arte avrebbe dovuto spogliarsi di qualsivoglia elemento connotativo e narrativo, non rappresentare nulla e rilasciare sole e semplici strutture. L’artista deve imporsi di non manipolare materia alcuna, ma affidare la realizzazione a terzi, in un processo meccanico e industriale di spersonalizzazione del prodotto (così fanno pesi massimi come Richard Serra e Carl Andre; oppure superstar come Damien Hirst o Jeff Koons). Qualsiasi altro gusto, bollato come artigiano, viene automaticamente rigettato. I musei d’arte contemporanea ospitano per la maggior parte prodotti di questa tipologia: le dimostrazioni di talento sono dunque bandite e dall’arte all’architettura, dal design all’Ikea, tutto serve a far prevalere la dittatura del minimalismo, dove le cose non devono dire nulla perché non hanno proprio nulla da dire.
Sennett rovescia tale assunto teorico. Per lui l’artista è prima di tutto un artigiano cui sta a cuore il lavoro ben fatto di per se stesso. Invece di asettici atelier popolati da assistenti al computer, torna alla bottega del falegname, circondato dai suoi apprendisti e dai suoi arnesi. Torna il criterio valutativo delle ore di lavoro, perché i tempi lunghi migliorano e impreziosiscono l’opera finita. «Voglio indagare - scrive Sennett - che cosa succede quando viene introdotta una separazione tra mano e testa, tra tecnica e scienza, tra arte e mestiere. Mostrerò come in questo caso sia la mente a soffrirne; intelligenza e capacità espressiva ne vengono entrambe compromesse».
Evviva il vecchio homo faber: è lui l’artista «nuovo» del Terzo Millennio. Per contro, visitate un museo d’arte contemporanea: spesso provoca una sensazione di stantio, sorpassato, mortifero. L’ideologia del vuoto toglie spazio alle opere, strutture metalliche, neon, carrozzerie, pile di cemento, accumulazioni di oggetti la cui realizzazione e allestimento è sempre delegata ad altri, mentre il rapporto diretto tra l’artefice e l’opera risulta basilare nella necessità esistenziale di quest’ultima.
Minimalismo, Arte Povera, concettuale hanno imposto la strategia di un prodotto globalizzato, sempre uguale in ogni angolo della terra, l’International Style ha ucciso l’emozione estetica e il bisogno di contemplazione. Leggendo Sennett si intuisce e si spera che questa triste storia sia giunta all’atto finale: si recupera invece il tipico, la materia del luogo e della tradizione, principale antidoto al brutto indifferenziato. La ceramica, la scultura lignea, il disegno fatto a mano nella pittura, la conoscenza tecnica dei materiali costituiscono un’autentica ricchezza contro quella cattiva qualità del lavoro, barometro di forme di indifferenza per la cultura materiale, e ragione in termini economici dell’indebolimento della motivazione di lavoratori sedati dall’assenza di competitività. Se l’arte è il tavolo a cui chiunque può sedersi senza averne le credenziali, a cosa servirà essere bravi e talentuosi?
Un tempo l’arte arrivava prima sulle cose e intuiva in anticipo i cambiamenti rischiando l’impopolarità. Oggi risulta il contrario e, tra i vari settori della creatività, finisce a fondo classifica. Un abito cucito a mano da un sarto vale molto più di una griffe prêt à porter. Un cuoco che utilizza materie prime del luogo la vince di gran lunga sui ristoranti dove servono pappette indefinibili dentro piatti quadrati. Il design, secondo la storica del ramo Cristina Morozzi, vive un paradosso: «nell’epoca della fretta e dell’immateriale riscopre il tempo lento del lavorare con le mani e la materia è di nuovo protagonista. I designer tornano nei laboratori a mettere le mani in pasta per creare pezzi unici e irripetibili» (da Over design over, Silvana, 2009).
Solo l’arte contemporanea è in colpevole ritardo. Pur non affrontando il tema direttamente, Sennett propone di recuperare lo spirito dell’Illuminismo adattandolo al nostro tempo, sollecitando l’attitudine al fare, il potenziamento delle proprie capacità, rincorrendo l’ossessione della qualità. Questo, solo questo, sarà opera d’arte.
«Il Giornale» dell'8 dicembre 2009
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