21 febbraio 2007

Quel coro di calunnie che infangò la Arendt in nome di nobili ragioni

I fabbricanti di immagini arrivarono ad accusare «La banalità del male» di nazismo
di Pierluigi Battista
Giusto ricordare Hannah Arendt, di questi giorni. Conviene tenere a mente uno degli esempi più eclatanti di cosa accade quando un libro viene scomunicato e chi l’ha scritto messo al bando. Con una ferocia smisurata, anche se animata dalle migliori intenzioni, o nel nome di ragioni nobili e sacrosante. Conviene ricordare cosa ebbe a passare la Arendt quando nel 1963 diede alle stampe Eichmann in Jerusalem (La banalità del male nell’edizione italiana), il suo resoconto del processo che in Israele aveva condotto alla condanna a morte del boia nazista. Un punto di vista originale, discutibile ma non conformista che però, come si evince da quello straordinario epistolario tra la Arendt e Mary McCarthy tradotto qualche anno fa da Sellerio con il titolo Tra amiche, fu letto come un’operazione intellettualmente malvagia, degna di ogni insulto. Conviene ricordare che sulla Partisan Review Lionel Abel scrisse che la Arendt aveva reso «Eichmann esteticamente accettabile e gli ebrei esteticamente ripugnanti». La Anti-Defamation League inviò «una circolare a tutti i rabbini perché facciano prediche contro di me il giorno dell’Anno Nuovo» giacché si insinuava che nel libro di Arendt si descrivesse addirittura «la partecipazione ebraica all’olocausto nazista». Non era vero, naturalmente. Ma la calunnia dilagò, e contagiò anche gli ambienti meno refrattari alla logica spietata del processo sommario. Si accaniscono contro «un libro che, in quei termini, io non avevo mai scritto», si lamentava con la McCarthy. E ancora: un’immagine ripugnante «è stata sostituita al libro che ho scritto», e con quel surrogato inautentico si è dato vita a una campagna «assurda», come è nel «potere dei fabbricanti di immagini». Sulla New York Times Book Review si accusò la Arendt «di difendere la Gestapo e di calunniare le vittime ebraiche». Lo storico letterario Alan Wald arrivò a definirla «Hannah Eichmann» (e mai si è appurato se si fosse trattato di lapsus involontario). L’autrice del libro fu definita «senza cuore», colpevole di aver «scagionato le SS», rea di aver «assolto Eichmann». Su un giornale tedesco, ha raccontato Joachim Fest, «fecero circolare la voce che lei avesse attenuato la responsabilità del boia delle SS soprattutto per distrarre l’attenzione dalle simpatie per il nazismo del suo maestro Martin Heidegger». In Francia il Nouvel Observateur pubblicò stralci del libro della Arendt con il titolo «Est Elle Nazie?»: «È nazista?». Ma davvero, era nazista l’intellettuale ebrea che era fuggita dall’inferno hitleriano? O quel titolo era invece il frutto perverso di un travisamento senza pari, di un istinto di annullamento, di umiliazione, di mortificazione di chi disgraziatamente si viene a trovare al centro di un linciaggio? La Arendt, abbandonata dagli amici ma difesa strenuamente da Mary McCarthy, «rimase ammutolita» e, ha raccontato Carol Brightman, «passò un anno prima che riuscisse a mandare persino una lettera di protesta all’editore». «Hannah mi redarguiva perché reagivo alle critiche», ha scritto la McCarthy, ma «l’amor proprio ferito e l’orgoglio le impedirono di rispondere». Sommersa dagli attacchi, dalle insinuazioni che avevano stravolto e caricaturizzato il senso del libro, la Arendt rifletteva sull’«individuo che è impotente per definizione», schiacciato dallo strapotere dei «fabbricanti di immagini». Lasciò quattro pagine fitte di appunti in risposta all’attacco della Partisan Review che non volle mai pubblicare, straziata dal fatto che amici e sodali come Hans Jonas e Irving Howe avevano scelto di accodarsi al coro delle calunnie. Hannah Arendt non ritrattò, non fece abiura, e non ritirò il suo libro.
«Corriere della sera» del 19 febbraio 2007

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