Un gesto necessario
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
Caro direttore, siamo convinti che sarebbe stato meglio aspettare prima di alzare il prezzo del giornale. Sappiamo che la situazione di tutta la stampa italiana è difficile. Sappiamo che i conti economici delle aziende editoriali soffrono per il calo della pubblicità: un po’ per la crisi economica, un po’ per colpa di un sistema scientificamente costruito per dirottare le risorse verso la televisione. Però…
Nel 2008, se abbiamo capito bene, i ricavi della Rcs quotidiani sono calati da 716 a 666 milioni di euro e il fatturato pubblicitario si è ridotto da 288 a 265 milioni: il tutto continuando a fornire con Corriere.it una informazione totalmente gratuita a un milione e mezzo di lettori on line. Nel 2009, poi, la situazione sarebbe ulteriormente peggiorata. Concordiamo: sono dati che non possono non preoccupare, nonostante i buoni segnali, a dispetto dei tempi non propizi, di aumenti delle vendite del Corriere. Dati che hanno costretto anche la redazione, con il buonsenso e lo spirito di sacrificio sempre dimostrati già in passato, a farsi carico di tagli dolorosi alle retribuzioni e ai posti di lavoro.
Sappiamo anche che molti concorrenti hanno aumentato il prezzo a un euro e venti ben prima che lo facessimo noi: la Stampa, il Giornale, Libero... Altri ancora. E sappiamo che negli ultimi mesi in tutta Europa il prezzo dei giornali è aumentato, qua e là, anche di 50 centesimi. Né ignoriamo che il prezzo del Corriere era fermo da cinque anni, e che un euro del 2010, per quanto nel 2009 sia stata registrata l’inflazione più bassa da cinquant’anni a questa parte, non ha lo stesso valore di un euro del 2005.
Ma 20 centesimi in più sono pur sempre un aumento del 20%. Non è poco. Si dirà che in realtà il ritocco è di poco superiore al 12%, tenuto conto del fatto che il giovedì e il sabato con i supplementi il prezzo resta invariato. Ma neanche il 12% è poco. Non è poco alla luce della situazione, molto pesante, di tante famiglie italiane. Ma anche alla luce di un dovere preciso che ha sempre avuto un quotidiano indipendente come il Corriere: offrire al suo lettore il meglio, nello spirito della concorrenza e del libero mercato. Di cui il prezzo è una componente non trascurabile.
E veniamo al punto. Ricordiamo quanto disse il presidente di Rcs, Piergaetano Marchetti, all’assemblea degli azionisti del 28 aprile 2008, quando già la crisi economica mordeva: «Non vogliamo essere un’azienda che vive di sussidi perché non solo questo mette in dubbio la capacità di reddito che una società per azioni deve perseguire ma mette a rischio l’indipendenza », anche perché «non possiamo diventare parte di una casta assistita e parassitaria. È una condizione di coerenza».
Giustissimo. Siamo costretti ad aumentare del 20% il prezzo del Corriere appellandoci al mercato e alla comprensione dei lettori? Bene, è l’occasione giusta per rinunciare parallelamente una buona volta al 4,4 per mille dei nostri ricavi: gli ultimi residui dei contributi e delle agevolazioni pubbliche. Certo, i contributi veri alla stampa indipendente sono finiti già nel 2006, con l’esaurimento delle agevolazioni per la carta, e sopravvivono solo sussidi che riguardano le tariffe telefoniche e facilitazioni del tutto secondarie. Come i sussidi per le vendite all’estero, vendite perseguite nonostante sia un gioco a perdere in nome della necessità di consentire a tanti italiani che vivono o viaggiano in Paesi extraeuropei di mantenere un legame con l’Italia.
Ci sono le agevolazioni postali, è vero. Ma meritano un discorso a parte, perché sono un’anomalia nell’anomalia: lo Stato le riconosce infatti, con pelosa e ipocrita generosità, perché vuole tenersi stretto, per motivi squisitamente politici e clientelari, il «monopolio» delle Poste. Vogliamo scommettere che in un regime di concorrenza vera i giornali, senza più alcun «favore», ci guadagnerebbero sia sul piano economico sia nella puntualità delle consegne? All’estero funziona così. Lo Stato abolisca il «monopolio», abolisca le tariffe agevolate e vedremo se i giornali più sani non ci guadagneranno. Noi, ne siamo certi, stapperemmo una bottiglia.
Bene, al netto di quella voce postale ci risulta che Rcs quotidiani abbia ricevuto dallo Stato nel 2008 contributi e agevolazioni per 2,9 milioni, che scenderebbero quest’anno a 2,4 milioni. Stiamo parlando del 4,4 per mille (per mille!) del fatturato della Rcs Quotidiani, ovvero l’uno per mille (per mille!) dell’intero fatturato della Rcs Mediagroup. Niente a che vedere con i sussidi destinati a giornali concorrenti che accedono a contributi di vario genere facendo lo slalom in mezzo a norme confuse e anacronistiche che partono dalla famigerata legge 250 del 1990, quella per la stampa di partito.
C’è chi, magari facendo prediche sugli sprechi, incassa dallo Stato sotto varie forme di aiuti (che il Corriere non si è mai sognato non solo di avere ma men che meno di invocare) il 10 per cento del fatturato, chi il 16,3 per cento, chi addirittura il 20 per cento. Chiudiamola lì almeno noi, con quello 0,4 per cento e non se ne parli più. E potremo finalmente spazzare via tutte quelle chiacchiere pretestuose di chi, in perfetta malafede, vorrebbe lasciare le cose così come stanno con quegli «aiutini» a doppio taglio proprio per potere starnazzare di fantomatici e faraonici «soldi dello Stato» dati a chi preferirebbe di gran lunga regole chiare, patti chiari, concorrenza chiara. E vinca il migliore. Insomma, direttore, restiamo dell’idea che sarebbe stato meglio aspettare ad aumentare il prezzo del Corriere. E siamo consapevoli che ormai, fatto il passo, è difficile fare retromarcia. Ma un segnale, ai nostri lettori, glielo dobbiamo. Che sia la volta buona?
Nel 2008, se abbiamo capito bene, i ricavi della Rcs quotidiani sono calati da 716 a 666 milioni di euro e il fatturato pubblicitario si è ridotto da 288 a 265 milioni: il tutto continuando a fornire con Corriere.it una informazione totalmente gratuita a un milione e mezzo di lettori on line. Nel 2009, poi, la situazione sarebbe ulteriormente peggiorata. Concordiamo: sono dati che non possono non preoccupare, nonostante i buoni segnali, a dispetto dei tempi non propizi, di aumenti delle vendite del Corriere. Dati che hanno costretto anche la redazione, con il buonsenso e lo spirito di sacrificio sempre dimostrati già in passato, a farsi carico di tagli dolorosi alle retribuzioni e ai posti di lavoro.
Sappiamo anche che molti concorrenti hanno aumentato il prezzo a un euro e venti ben prima che lo facessimo noi: la Stampa, il Giornale, Libero... Altri ancora. E sappiamo che negli ultimi mesi in tutta Europa il prezzo dei giornali è aumentato, qua e là, anche di 50 centesimi. Né ignoriamo che il prezzo del Corriere era fermo da cinque anni, e che un euro del 2010, per quanto nel 2009 sia stata registrata l’inflazione più bassa da cinquant’anni a questa parte, non ha lo stesso valore di un euro del 2005.
Ma 20 centesimi in più sono pur sempre un aumento del 20%. Non è poco. Si dirà che in realtà il ritocco è di poco superiore al 12%, tenuto conto del fatto che il giovedì e il sabato con i supplementi il prezzo resta invariato. Ma neanche il 12% è poco. Non è poco alla luce della situazione, molto pesante, di tante famiglie italiane. Ma anche alla luce di un dovere preciso che ha sempre avuto un quotidiano indipendente come il Corriere: offrire al suo lettore il meglio, nello spirito della concorrenza e del libero mercato. Di cui il prezzo è una componente non trascurabile.
E veniamo al punto. Ricordiamo quanto disse il presidente di Rcs, Piergaetano Marchetti, all’assemblea degli azionisti del 28 aprile 2008, quando già la crisi economica mordeva: «Non vogliamo essere un’azienda che vive di sussidi perché non solo questo mette in dubbio la capacità di reddito che una società per azioni deve perseguire ma mette a rischio l’indipendenza », anche perché «non possiamo diventare parte di una casta assistita e parassitaria. È una condizione di coerenza».
Giustissimo. Siamo costretti ad aumentare del 20% il prezzo del Corriere appellandoci al mercato e alla comprensione dei lettori? Bene, è l’occasione giusta per rinunciare parallelamente una buona volta al 4,4 per mille dei nostri ricavi: gli ultimi residui dei contributi e delle agevolazioni pubbliche. Certo, i contributi veri alla stampa indipendente sono finiti già nel 2006, con l’esaurimento delle agevolazioni per la carta, e sopravvivono solo sussidi che riguardano le tariffe telefoniche e facilitazioni del tutto secondarie. Come i sussidi per le vendite all’estero, vendite perseguite nonostante sia un gioco a perdere in nome della necessità di consentire a tanti italiani che vivono o viaggiano in Paesi extraeuropei di mantenere un legame con l’Italia.
Ci sono le agevolazioni postali, è vero. Ma meritano un discorso a parte, perché sono un’anomalia nell’anomalia: lo Stato le riconosce infatti, con pelosa e ipocrita generosità, perché vuole tenersi stretto, per motivi squisitamente politici e clientelari, il «monopolio» delle Poste. Vogliamo scommettere che in un regime di concorrenza vera i giornali, senza più alcun «favore», ci guadagnerebbero sia sul piano economico sia nella puntualità delle consegne? All’estero funziona così. Lo Stato abolisca il «monopolio», abolisca le tariffe agevolate e vedremo se i giornali più sani non ci guadagneranno. Noi, ne siamo certi, stapperemmo una bottiglia.
Bene, al netto di quella voce postale ci risulta che Rcs quotidiani abbia ricevuto dallo Stato nel 2008 contributi e agevolazioni per 2,9 milioni, che scenderebbero quest’anno a 2,4 milioni. Stiamo parlando del 4,4 per mille (per mille!) del fatturato della Rcs Quotidiani, ovvero l’uno per mille (per mille!) dell’intero fatturato della Rcs Mediagroup. Niente a che vedere con i sussidi destinati a giornali concorrenti che accedono a contributi di vario genere facendo lo slalom in mezzo a norme confuse e anacronistiche che partono dalla famigerata legge 250 del 1990, quella per la stampa di partito.
C’è chi, magari facendo prediche sugli sprechi, incassa dallo Stato sotto varie forme di aiuti (che il Corriere non si è mai sognato non solo di avere ma men che meno di invocare) il 10 per cento del fatturato, chi il 16,3 per cento, chi addirittura il 20 per cento. Chiudiamola lì almeno noi, con quello 0,4 per cento e non se ne parli più. E potremo finalmente spazzare via tutte quelle chiacchiere pretestuose di chi, in perfetta malafede, vorrebbe lasciare le cose così come stanno con quegli «aiutini» a doppio taglio proprio per potere starnazzare di fantomatici e faraonici «soldi dello Stato» dati a chi preferirebbe di gran lunga regole chiare, patti chiari, concorrenza chiara. E vinca il migliore. Insomma, direttore, restiamo dell’idea che sarebbe stato meglio aspettare ad aumentare il prezzo del Corriere. E siamo consapevoli che ormai, fatto il passo, è difficile fare retromarcia. Ma un segnale, ai nostri lettori, glielo dobbiamo. Che sia la volta buona?
«Corriere della Sera» del 7 gennaio 2010
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