di Giuseppe O. Longo
Secondo Daniel Goleman, autore nel 1995 di Intelligenza emotiva, oltre cinque milioni di copie in tutto il mondo, viviamo nell’ « età della malinconia » : la nostra generazione è afflitta dalla depressione più delle precedenti a dispetto dei meravigliosi dispositivi tecnici da cui siamo circondati, o forse a causa di essi. Un altro psicologo, Tim Kasser, ha scoperto che, guarda un po’, quanti attribuiscono grande importanza ai beni materiali sono più infelici di coloro che apprezzano i valori spirituali: il materialismo si accompagna spesso a narcisismo, a scarsa autostima, a minor empatia e maggior conflittualità nelle relazioni personali. E la tecnologia contribuisce ad aggravare la situazione: questa è anche la tesi illustrata da Yair Amichai-Hamburger, della Sammy Ofer School on Communication di Herzlyia, Israele, nel libro appena uscito « Technology and Psychological Well- being » ('Benessere tecnologico e psicologico'). I ritmi delle nostre giornate ( e talora anche nottate) sono imposti da cellulari, computer e internet e sono scanditi dal controllo compulsivo della posta elettronica, dalla smania di aggiornamento dei profili nelle varie reti sociali nelle quali ci siamo impigliati, da Facebook a MySpace, e dal bisogno di seguire istante per istante le notizie dal mondo e giorno per giorno le offerte dei costruttori per non lasciarci sfuggire l’ultimo modello di telefono o di computerino.
L’accelerazione progressiva dell’innovazione trasforma la tecnologia da ancella a dominatrice, condizionando il nostro benessere e facendoci confondere il livello materiale dell’esistenza con la qualità della vita. E la situazione è ancora peggiore per i giovani e giovanissimi, che non hanno conosciuto un modo diverso di vivere e che seguendo le suggestioni della pubblicità si persuadono che la felicità si ottenga con l’ultimo modello di cellulare o di videogioco.
Tutto ciò si sovrappone al monito «il tempo è denaro»: siano spinti all’efficienza totale e la distinzione fra tempo libero e tempo di lavoro sfuma, per cui lavoriamo sempre e compromettiamo i nostri rapporti con i familiari.
Un dirigente di un’azienda di punta ha affermato tristemente: « Mi hanno regalato un cellulare per possedermi ventiquattro ore al giorno e un computer portatile perché mi porti sempre dietro l’ufficio » . Bisogna insomma riesaminare il nostri rapporto con la tecnica e restituire profondità e umanità ai nostri rapporti con gli altri e con noi stessi, riappropriandoci del tempo di cui siamo sempre più spodestati. Poniamo limiti, opponiamoci all’invasione tecnologica, riacquistiamo la nostra autonomia: dedichiamo alla posta elettronica un tempo determinato della giornata, spegniamo ogni tanto il cellulare, almeno in certi luoghi e in certi momenti, viviamo a contatto della realtà e dell’umanità che ci circonda e non sempre con la testa altrove, e soprattutto viviamo a contatto con noi stessi, con la profonda sorgente di spiritualità che si annida dentro ciascuno di noi e che, se non è coltivata e visitata, rischia di inaridirsi e di trasformarsi in una cicatrice dolente. Della tristezza, del sordo malessere che ci affligge in questo tempo di affannoso consumismo, non riusciamo neppure più a riconoscere la causa, ed è forse questo il segno più preoccupante.
L’accelerazione progressiva dell’innovazione trasforma la tecnologia da ancella a dominatrice, condizionando il nostro benessere e facendoci confondere il livello materiale dell’esistenza con la qualità della vita. E la situazione è ancora peggiore per i giovani e giovanissimi, che non hanno conosciuto un modo diverso di vivere e che seguendo le suggestioni della pubblicità si persuadono che la felicità si ottenga con l’ultimo modello di cellulare o di videogioco.
Tutto ciò si sovrappone al monito «il tempo è denaro»: siano spinti all’efficienza totale e la distinzione fra tempo libero e tempo di lavoro sfuma, per cui lavoriamo sempre e compromettiamo i nostri rapporti con i familiari.
Un dirigente di un’azienda di punta ha affermato tristemente: « Mi hanno regalato un cellulare per possedermi ventiquattro ore al giorno e un computer portatile perché mi porti sempre dietro l’ufficio » . Bisogna insomma riesaminare il nostri rapporto con la tecnica e restituire profondità e umanità ai nostri rapporti con gli altri e con noi stessi, riappropriandoci del tempo di cui siamo sempre più spodestati. Poniamo limiti, opponiamoci all’invasione tecnologica, riacquistiamo la nostra autonomia: dedichiamo alla posta elettronica un tempo determinato della giornata, spegniamo ogni tanto il cellulare, almeno in certi luoghi e in certi momenti, viviamo a contatto della realtà e dell’umanità che ci circonda e non sempre con la testa altrove, e soprattutto viviamo a contatto con noi stessi, con la profonda sorgente di spiritualità che si annida dentro ciascuno di noi e che, se non è coltivata e visitata, rischia di inaridirsi e di trasformarsi in una cicatrice dolente. Della tristezza, del sordo malessere che ci affligge in questo tempo di affannoso consumismo, non riusciamo neppure più a riconoscere la causa, ed è forse questo il segno più preoccupante.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010
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