di Ugo Volli
Sono passati sei anni da quando apparve negli Stati Uniti The Vanishing Newspaper di Philip Meyer, la prima analisi sull’imminente scomparsa dei giornali di carta, accolta con clamore dagli stessi giornali dichiarati in via d’estinzione. Vi si affermava che «il momento nel quale l’ultimo vecchio lettore andrà ad acquistare l’ultima sgualcita copia stampata del New York Times» sarà nell’anno 2043. In Italia la profezia è stata rilanciata tre anni fa da un libro di Vittorio Sabadin, L’ultima copia del «New York Times» . Nel frattempo la diffusione dei quotidiani, in particolare in Italia, ha subito severe perdite, e pure si sono affermati in internet strumenti alternativi che hanno svolto una funzione informativa importante: Youtube, i blog, esplosi nel 2004, e negli ultimi due o tre anni i cosiddetti social network come Facebook e Twitter. Vi è stato anche un certo tentativo di reazione del più importante industriale dell’informazione, Rupert Murdoch, che ha individuato il nemico negli «aggregatori di notizie» come Google News annunciando di voler impedire ai motori di ricerca di rendere accessibili i contenuti dei suoi giornali: una scelta rischiosa ma interessante. È facile profetizzare la vittoria di Google.
Siamo alla vigilia della scomparsa dei giornali? In genere, i nuovi mezzi di comunicazione non annullano i vecchi, vi si affiancano modificandoli. Il cinema non ha eliminato il teatro (vi ha fatto affermare la regia); la fotografia non ha ucciso la pittura (vi ha favorito l’esplosione di stili non figurativi); radio e televisione non hanno fatto sparire giornali e cinema. Però noi non scriviamo più su tavolette di cera, pennini e calamaio si vedono solo nei musei; i dischi di vinile, i libri da arrotolare ( volumen ), le macchine fotografiche polaroid, i tatzebao sono pezzi di passato. Dunque è possibile che i giornali di carta spariscano davvero.
Ma naturalmente dei giornali veri in rete (non le pallide imitazioni dei siti attuali), continuamente aggiornati, con link alle fonti e materiali audiovisivi, potrebbero avere abbastanza successo da archiviare la carta ben prima del ’43.
Non sarebbe grave. La Bibbia e Omero sono stati scritti su papiro e pergamena e il loro senso non è molto cambiato negli ultimi quindici secoli. A loro volta, i giornali cartacei negli ultimi trent’anni sono cambiati moltissimo, di dimensioni, impaginazione, contenuti, colori, stile, immagini. E non sentiamo di aver perso granché rispetto al «Corriere della sera» diretto non dico da Albertini fra il 1900 e il ’25 ma anche da Missiroli (1952-’61). Il problema non è la materia dell’informazione, ma la sua funzione. Altro problema è se il giornalismo in quanto tale sopravvivrà a questa crisi. I quotidiani nascono nel ’700 e meno di due secoli fa diventano «giornali», cioè strumenti che forniscono informazione professionale e opinioni autorevoli. Oggi in Internet le informazioni son spesso recuperabili alla fonte e le opinioni abbondano. Quel che potrebbe restare ai giornali sarebbero autorevolezza, professionalità e «terzietà» che in rete mancano. Il peccato è che i giornali – almeno gli italiani – hanno rinunciato a queste caratteristiche per farsi sempre più militanti. Ma che bisogno avrebbe un lettore di «Repubblica» se ci fosse un buon sito del Pd? Le informazioni sulle farmacie, i cinema e la tv si trovano in rete, come opinioni, racconti di viaggio, risultati sportivi, recensioni di spettacoli. Insomma, il rischio non è la scomparsa della carta, ma quella della fiducia nella credibilità della mediazione giornalistica, cioè nella sua indipendenza. Un giornalismo esclusivamente propagandistico, che non vende informazione ai lettori, ma contatti ai partiti o alle aziende, non sopravvivrà fino al 2043. Sarà condannato non dalla tecnologia, ma dall’incapacità di assolvere a una funzione sociale.
Siamo alla vigilia della scomparsa dei giornali? In genere, i nuovi mezzi di comunicazione non annullano i vecchi, vi si affiancano modificandoli. Il cinema non ha eliminato il teatro (vi ha fatto affermare la regia); la fotografia non ha ucciso la pittura (vi ha favorito l’esplosione di stili non figurativi); radio e televisione non hanno fatto sparire giornali e cinema. Però noi non scriviamo più su tavolette di cera, pennini e calamaio si vedono solo nei musei; i dischi di vinile, i libri da arrotolare ( volumen ), le macchine fotografiche polaroid, i tatzebao sono pezzi di passato. Dunque è possibile che i giornali di carta spariscano davvero.
Ma naturalmente dei giornali veri in rete (non le pallide imitazioni dei siti attuali), continuamente aggiornati, con link alle fonti e materiali audiovisivi, potrebbero avere abbastanza successo da archiviare la carta ben prima del ’43.
Non sarebbe grave. La Bibbia e Omero sono stati scritti su papiro e pergamena e il loro senso non è molto cambiato negli ultimi quindici secoli. A loro volta, i giornali cartacei negli ultimi trent’anni sono cambiati moltissimo, di dimensioni, impaginazione, contenuti, colori, stile, immagini. E non sentiamo di aver perso granché rispetto al «Corriere della sera» diretto non dico da Albertini fra il 1900 e il ’25 ma anche da Missiroli (1952-’61). Il problema non è la materia dell’informazione, ma la sua funzione. Altro problema è se il giornalismo in quanto tale sopravvivrà a questa crisi. I quotidiani nascono nel ’700 e meno di due secoli fa diventano «giornali», cioè strumenti che forniscono informazione professionale e opinioni autorevoli. Oggi in Internet le informazioni son spesso recuperabili alla fonte e le opinioni abbondano. Quel che potrebbe restare ai giornali sarebbero autorevolezza, professionalità e «terzietà» che in rete mancano. Il peccato è che i giornali – almeno gli italiani – hanno rinunciato a queste caratteristiche per farsi sempre più militanti. Ma che bisogno avrebbe un lettore di «Repubblica» se ci fosse un buon sito del Pd? Le informazioni sulle farmacie, i cinema e la tv si trovano in rete, come opinioni, racconti di viaggio, risultati sportivi, recensioni di spettacoli. Insomma, il rischio non è la scomparsa della carta, ma quella della fiducia nella credibilità della mediazione giornalistica, cioè nella sua indipendenza. Un giornalismo esclusivamente propagandistico, che non vende informazione ai lettori, ma contatti ai partiti o alle aziende, non sopravvivrà fino al 2043. Sarà condannato non dalla tecnologia, ma dall’incapacità di assolvere a una funzione sociale.
«Avvenire» del 3 gennaio 2010
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