Viviamo solo il presente, preferiamo la notorietà alla gloria. E per il genio non c’è più posto
di Marcello Veneziani
Vi siete chiesti perché è impossibile che oggi nasca un capolavoro e diventi un classico? Me lo chiedevo dopo aver letto un piccolo, prezioso libretto, Il reato di scrivere, di J. Rodolfo Wilcock, in questi giorni uscito da Adelphi (pagg. 88, 6 euro).
Ogni volta che mi capita di parlare di un grande autore del passato - poeta, artista, scrittore o filosofo - c’è sempre qualcuno che domanda: ma oggi può nascere un nuovo Leopardi, un nuovo Nietzsche? Ed io sempre rispondo di no, che non può nascere. Ma, aggiungo: se c’è, passa inosservato. E non perché la mamma dei geni sia diventata sterile, l’umanità sia scemata o il capolavoro sia chimicamente impossibile nella nostra epoca, o a partire da un certo tempo in poi. Ma per una catena di ragioni che si tengono l’una stretta all’altra.
Innanzitutto perché non abbiamo più un passato da venerare e un futuro da aspettare, e dunque una tradizione in cui selezionare ciò che passa e salvare ciò che resta. La guerra civile tra passato e futuro si è conclusa con la sconfitta d’ambedue e la vittoria inappellabile del presente. Il culto del presente nega il capolavoro, che ha bisogno di sguardi lungimiranti oltre il muro del tempo; il presente non consegna l’Opera alla storia né tantomeno ai posteri, non elegge classici; consuma sul posto l’essere appena appare, fino a farlo sparire. Senza la dimensione della storia e la proiezione nel futuro non è possibile partorire la grande opera. Ma l’oggi non si sacrifica al domani né la vita all’opera, perché la vita e il presente sono l’assoluto. Chi si cura dei frutti oltre il raggio della propria vita corrente se tutto finisce qui e ora? Così la grande opera è frustrata.
Poi, un capolavoro o un genio non può emergere perché abbiamo perduto il senso verticale della grandezza e consideriamo solo il senso orizzontale della notorietà che si allarga senza innalzarsi, che si globalizza senza eternarsi. È la fama senza gloria, è la celebrità senza il carisma, il divismo senza la divina scintilla. A cui si associa la convinzione che non vi sia alcuna grandezza oggettiva e trascendente, ma tutto sia miserabile, reversibile, opinabile e in definitiva soggettivo e relativo. Dunque il classico o il capolavoro, che è opera assoluta, non può matematicamente emergere in un’era in cui la democrazia forse non si applica ai diritti e nemmeno agli averi ma si accanisce sulla qualità e sulle eccellenze. Il genio annega nel delirio narcisista dell’egocentrismo di massa, nell’invidia egualitaria, nel pari diritto al riconoscimento della genialità e nella congiura della mediocrità organizzata. Nella mediocrazia universale, nell’uguaglianza metafisica delle anime o della loro assenza, il genio è un’anomalia arcaica, frutto iniquo della diseguaglianza e cicatrice deformante della disparità. Il genio è pregiudicato e rinnegato. Funzione del critico e suo pubblico servizio è trascinare anche il genio e il capolavoro nella fossa comune della mediocrità: è inutile che vuoi sfuggire, neanche tu sei destinato a svettare e a restare...
Nell’epoca della riproducibilità dell’opera, il capolavoro segnerebbe poi il collasso della macchina e la smentita della tecnica, provocherebbe il cortocircuito della produzione seriale nel primato dell’irriproducibile. Il capolavoro è difforme, fuori produzione; è come difettato, malato, abnorme rispetto allo standard. Va perciò espulso dal ciclo o riformattato per renderlo compatibile e leggibile dentro il sistema.
Un grande, poi, non può più sorgere perché abbiamo perso la capacità di mettere a frutto il dolore e la privazione, o all’opposto di sublimare il piacere e il desiderio. Oggi è più facile esaudire i nostri desideri e rimediare ai nostri difetti, sfamare i nostri appetiti, modificare i nostri limiti o anestetizzare i nostri dolori. Ci mancano dunque le virtuose disperazioni e le promettenti mancanze su cui si fonda la grande opera, quell’intreccio faticoso di sofferenze provate e di soddisfazioni negate su cui cresce il sogno di una vita ulteriore, che poi si riversa nel capolavoro. Come l’amor platonico, anche l’arte è figlia di Poros e Penìa, nasce dallo scompenso tra ricchezza di mente e povertà di mondo.
Infine, se oggi nascesse un grande o se vedesse la luce un capolavoro, non sarebbe nemmeno riconosciuto. Nella migliore delle ipotesi sarebbe considerato un frutto di stagione di cui cibarsi e poi dimenticare nella collezione incessante delle mode. Nella più frequente delle ipotesi passerebbe inosservato o sarebbe scoraggiato in partenza, non troverebbe approdi e habitat favorevoli né attenzioni e riconoscimenti. Per salvarsi dall’autismo e dalla solitudine, il genio con il suo capolavoro cercherebbe anzi di nascondere il segno della diversità, curerebbe la genialità come una malattia per farsi accettare dal suo tempo e dal suo prossimo. Patirebbe la sua eccellenza come infermità, imperdonabile difformità, e sarebbe istigato a rimuoverla per adeguarsi e farsi integrare. Per le consorterie letterarie e ideologiche l’eccellenza è ingombrante e perciò condannata all’inesistenza. Gli stessi premi letterari, contrariamente alla loro ragione vitale, non sono fondati sulla ricerca e il riconoscimento del merito e dell’eccellenza, ma, al contrario, sull’omogeneità al paesaggio e sulla funzionalità al potere culturale. Non premiano la qualità di un’opera e il valore di un autore, ma la loro collocazione e affiliazione, il loro opportuno situarsi nel tempo, nel luogo e nel modo. Chi è davvero fuori registro e fuori misura per la sua eccellenza, parla un altro linguaggio, patisce il disprezzo, il sarcasmo o più facilmente il silenzio, la finzione d’inesistenza.
Il genio è misantropo, ha una tormentata socievolezza, non sa stare in gruppo e fare setta o lobby perché non è come gli altri e tende a isolarsi. Con il dolore aggiuntivo di ritrovarsi confuso tra tanti eccentrici privi di genialità che, vedendo disprezzato o disconosciuto il loro presunto talento, traggono alibi e presagio della loro inesistente grandezza. Ma se i geni solitamente sono incompresi, frustrati e sommersi, non tutti gli incompresi, i frustrati e i sommersi sono geni.
Per questa rete di ragioni non è possibile che nasca e cresca oggi un grande o un capolavoro, o che sia riconosciuto come tale. Né può sperare nella sua morte e confidare nei posteri, perché sarà difficile che qualcuno si applichi a rintracciare nel passato tracce occulte di grandezza, se deve affrettarsi a vivere per non perdere l’assoluta pienezza del presente. Il gigantismo della memoria e l’archiviazione universale paradossalmente favoriscono l’oblio cosmico e scoraggiano la memoria selettiva. Il capolavoro annega nel catalogo generale.
Chi ancora sogna la grandezza dell’opera, e non si cura dell’irrisione e della cancellazione, coltiva sogni da pazzo o da bambino. Bisogna perciò confidare nella follìa infantile dei geni che negano la realtà per troppo amor del vero.
Sarà così per sempre? Non si può dire. Al futuro non possiamo negare a priori le novità rispetto al presente o i ritorni rispetto al passato.
Ma nel frattempo tutto è permesso eccetto la grandezza. Nel libero consesso degli uguali, il genio è vietato, il capolavoro è proibito.
Ogni volta che mi capita di parlare di un grande autore del passato - poeta, artista, scrittore o filosofo - c’è sempre qualcuno che domanda: ma oggi può nascere un nuovo Leopardi, un nuovo Nietzsche? Ed io sempre rispondo di no, che non può nascere. Ma, aggiungo: se c’è, passa inosservato. E non perché la mamma dei geni sia diventata sterile, l’umanità sia scemata o il capolavoro sia chimicamente impossibile nella nostra epoca, o a partire da un certo tempo in poi. Ma per una catena di ragioni che si tengono l’una stretta all’altra.
Innanzitutto perché non abbiamo più un passato da venerare e un futuro da aspettare, e dunque una tradizione in cui selezionare ciò che passa e salvare ciò che resta. La guerra civile tra passato e futuro si è conclusa con la sconfitta d’ambedue e la vittoria inappellabile del presente. Il culto del presente nega il capolavoro, che ha bisogno di sguardi lungimiranti oltre il muro del tempo; il presente non consegna l’Opera alla storia né tantomeno ai posteri, non elegge classici; consuma sul posto l’essere appena appare, fino a farlo sparire. Senza la dimensione della storia e la proiezione nel futuro non è possibile partorire la grande opera. Ma l’oggi non si sacrifica al domani né la vita all’opera, perché la vita e il presente sono l’assoluto. Chi si cura dei frutti oltre il raggio della propria vita corrente se tutto finisce qui e ora? Così la grande opera è frustrata.
Poi, un capolavoro o un genio non può emergere perché abbiamo perduto il senso verticale della grandezza e consideriamo solo il senso orizzontale della notorietà che si allarga senza innalzarsi, che si globalizza senza eternarsi. È la fama senza gloria, è la celebrità senza il carisma, il divismo senza la divina scintilla. A cui si associa la convinzione che non vi sia alcuna grandezza oggettiva e trascendente, ma tutto sia miserabile, reversibile, opinabile e in definitiva soggettivo e relativo. Dunque il classico o il capolavoro, che è opera assoluta, non può matematicamente emergere in un’era in cui la democrazia forse non si applica ai diritti e nemmeno agli averi ma si accanisce sulla qualità e sulle eccellenze. Il genio annega nel delirio narcisista dell’egocentrismo di massa, nell’invidia egualitaria, nel pari diritto al riconoscimento della genialità e nella congiura della mediocrità organizzata. Nella mediocrazia universale, nell’uguaglianza metafisica delle anime o della loro assenza, il genio è un’anomalia arcaica, frutto iniquo della diseguaglianza e cicatrice deformante della disparità. Il genio è pregiudicato e rinnegato. Funzione del critico e suo pubblico servizio è trascinare anche il genio e il capolavoro nella fossa comune della mediocrità: è inutile che vuoi sfuggire, neanche tu sei destinato a svettare e a restare...
Nell’epoca della riproducibilità dell’opera, il capolavoro segnerebbe poi il collasso della macchina e la smentita della tecnica, provocherebbe il cortocircuito della produzione seriale nel primato dell’irriproducibile. Il capolavoro è difforme, fuori produzione; è come difettato, malato, abnorme rispetto allo standard. Va perciò espulso dal ciclo o riformattato per renderlo compatibile e leggibile dentro il sistema.
Un grande, poi, non può più sorgere perché abbiamo perso la capacità di mettere a frutto il dolore e la privazione, o all’opposto di sublimare il piacere e il desiderio. Oggi è più facile esaudire i nostri desideri e rimediare ai nostri difetti, sfamare i nostri appetiti, modificare i nostri limiti o anestetizzare i nostri dolori. Ci mancano dunque le virtuose disperazioni e le promettenti mancanze su cui si fonda la grande opera, quell’intreccio faticoso di sofferenze provate e di soddisfazioni negate su cui cresce il sogno di una vita ulteriore, che poi si riversa nel capolavoro. Come l’amor platonico, anche l’arte è figlia di Poros e Penìa, nasce dallo scompenso tra ricchezza di mente e povertà di mondo.
Infine, se oggi nascesse un grande o se vedesse la luce un capolavoro, non sarebbe nemmeno riconosciuto. Nella migliore delle ipotesi sarebbe considerato un frutto di stagione di cui cibarsi e poi dimenticare nella collezione incessante delle mode. Nella più frequente delle ipotesi passerebbe inosservato o sarebbe scoraggiato in partenza, non troverebbe approdi e habitat favorevoli né attenzioni e riconoscimenti. Per salvarsi dall’autismo e dalla solitudine, il genio con il suo capolavoro cercherebbe anzi di nascondere il segno della diversità, curerebbe la genialità come una malattia per farsi accettare dal suo tempo e dal suo prossimo. Patirebbe la sua eccellenza come infermità, imperdonabile difformità, e sarebbe istigato a rimuoverla per adeguarsi e farsi integrare. Per le consorterie letterarie e ideologiche l’eccellenza è ingombrante e perciò condannata all’inesistenza. Gli stessi premi letterari, contrariamente alla loro ragione vitale, non sono fondati sulla ricerca e il riconoscimento del merito e dell’eccellenza, ma, al contrario, sull’omogeneità al paesaggio e sulla funzionalità al potere culturale. Non premiano la qualità di un’opera e il valore di un autore, ma la loro collocazione e affiliazione, il loro opportuno situarsi nel tempo, nel luogo e nel modo. Chi è davvero fuori registro e fuori misura per la sua eccellenza, parla un altro linguaggio, patisce il disprezzo, il sarcasmo o più facilmente il silenzio, la finzione d’inesistenza.
Il genio è misantropo, ha una tormentata socievolezza, non sa stare in gruppo e fare setta o lobby perché non è come gli altri e tende a isolarsi. Con il dolore aggiuntivo di ritrovarsi confuso tra tanti eccentrici privi di genialità che, vedendo disprezzato o disconosciuto il loro presunto talento, traggono alibi e presagio della loro inesistente grandezza. Ma se i geni solitamente sono incompresi, frustrati e sommersi, non tutti gli incompresi, i frustrati e i sommersi sono geni.
Per questa rete di ragioni non è possibile che nasca e cresca oggi un grande o un capolavoro, o che sia riconosciuto come tale. Né può sperare nella sua morte e confidare nei posteri, perché sarà difficile che qualcuno si applichi a rintracciare nel passato tracce occulte di grandezza, se deve affrettarsi a vivere per non perdere l’assoluta pienezza del presente. Il gigantismo della memoria e l’archiviazione universale paradossalmente favoriscono l’oblio cosmico e scoraggiano la memoria selettiva. Il capolavoro annega nel catalogo generale.
Chi ancora sogna la grandezza dell’opera, e non si cura dell’irrisione e della cancellazione, coltiva sogni da pazzo o da bambino. Bisogna perciò confidare nella follìa infantile dei geni che negano la realtà per troppo amor del vero.
Sarà così per sempre? Non si può dire. Al futuro non possiamo negare a priori le novità rispetto al presente o i ritorni rispetto al passato.
Ma nel frattempo tutto è permesso eccetto la grandezza. Nel libero consesso degli uguali, il genio è vietato, il capolavoro è proibito.
«Il Giornale» del 19 gennaio 2010
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