La lunga tradizione incominciata con Robert Musil è finita. I luoghi riempiono di contenuto vicende altrimenti normali
di Giorgio Montefoschi
Naipaul, Yehoshua, Pamuk: così geografia e politica ridefiniscono la narrativa Di un uomo non si deve sapere quello che fa, ma soltanto i suoi arrivi e le sue partenze
Dopo una lunga epoca, durante la quale il tema dell'«identità del personaggio» sembrava smarrito - come se il romanzo-capostipite della perdita dell'identità, L'uomo senza qualità di Musil, avesse fatto terra bruciata dell'argomento, indicando agli scrittori futuri il cammino da percorrere e se stesso quale specchio profondo in cui misurare e disperdere le proprie fattezze, quelle degli scrittori e quelle dei personaggi, fino ad esserne inghiottiti - ecco che, a fare bene i conti con alcuni romanzi che hanno illuminato la fine del secolo scorso e illuminano il nuovo, appare in maniera abbastanza evidente come il recupero del tema dell' identità sia un dato di fatto dal quale non poter prescindere. Una identità che non è più l' identità smarrita dell'uomo qualunque e senza qualità, degli omini anonimi e scuri di T. S. Eliot che al mattino attraversavano il London Bridge. No, la ricerca dell'identità è sempre più una identità legata a una situazione di confine: etnico, politico, geografico. Un confine che passa attraverso i conflitti della storia e del presente; che passa attraverso le umiliazioni e le diversità stabilite nella storia e nel presente; che traccia l'infame linea fra i colori della pelle. Questo confine, che può essere rappresentato a volte anche da episodi cruenti contemporanei che immediatamente assumono il peso della storia, come l'11 settembre (sfruttatissimo, ormai, da molti romanzieri americani dell' ultim' ora, appiccicato come un francobollo, e per fortuna in declino), è senza dubbio il «valore aggiunto» che fa di un buonissimo romanzo un romanzo che «ha qualcosa in più», ha un significato che aumenta la sua importanza (non la sua bellezza) e dunque lo rende più propizio ad avere il successo. Soprattutto internazionale. Senza questo confine, senza queste tensioni palesi o sotterranee sullo sfondo di vicende altrimenti considerate «vicende normali», senza questa incandescenza del confine per la quale bere un bicchier d' acqua a Gerusalemme è diverso dal berlo a Roma o a Milano, fare l'amore a Istanbul è diverso che farlo a Parigi e partire da Trinidad è diverso che partire da Madrid, senza (insomma) il confine verrebbe da chiedersi: che senso ha oggi scrivere un romanzo? Prendiamo tre scrittori molto bravi, i cui romanzi sono apparsi negli ultimi decenni: due premi Nobel, V. S. Naipaul e Orhan Pamuk, e Abraham Yehoshua (forse il migliore dei tre che però i signori di Stoccolma si ostinano a non prendere mai in considerazione, chissà perché). Cominciamo proprio da lui; da una sua recente intervista e dall' ultimo suo romanzo pubblicato in Italia da Einaudi, intitolato Fuoco amico. Dice Yehoshua: «Ci sono libri che ignorano il contesto storico confrontandosi con esperienze immediate. Capita con certe storie d'amore. Ma questo non mi riguarda. Il sionismo, ovvero la normalizzazione degli ebrei, equivale anche al cambiamento del loro modo di porsi di fronte alla Storia. Naturale che, in un' epoca di normalizzazione degli ebrei in Israele, io sviluppi le mie storie dentro una trama storica più vasta». È quello che accade, per esempio, in Fuoco amico. Dove, se vogliamo, abbiamo una «storia», una trama, assai semplice. Che è questa. Amotz, un sessantenne che come lavoro si occupa di manutenzione di ascensori, e sua moglie Daniela, coetanea, si amano moltissimo. Il romanzo comincia il giorno in cui Daniela va a trovare il cognato vedovo che si è ritirato in esilio volontario in Tanzania, dopo aver perso il figlio per una pallottola sparata per sbaglio da un suo stesso commilitone (ecco il «fuoco amico»), nel corso di un pattugliamento notturno nei territori occupati, e dura una settimana. In questa settimana, Daniela indaga nel sentimento di freddezza, di gelo, di totale disinteresse per le vicende di Israele che alberga nel cuore ferito del cognato; Amotz, rimasto a Tel Aviv, si occupa del padre malato, dei nipotini, del figlio che viene richiamato per la leva e, soprattutto, della bella nuora Efrat. Perché soprattutto? Perché Amotz intuisce che fra il figlio e la nuora le cose non vanno e, come in un altro suo romanzo, La sposa liberata, ha la fortissima preoccupazione che Efrat tradisca il figlio e il matrimonio fallisca. Intanto, sale e scende dai grattaceli che bordeggiano il lungomare e pone il suo orecchio nei vani vuoti in cui corrono gli ascensori: per capire da cosa dipendono quegli strani rumori che si sentono, cos' è che non funziona. Tutto qui. Invece, è chiaro che in quel vuoto Amotz riversa non solo tutta la sua angoscia di padre, la preoccupazione per la moglie lontana. È chiaro che in quegli imbuti oscuri Amotz fa cadere una angoscia ancora più profonda, magari non detta, che è quella di un qualsiasi cittadino israeliano che vive nel «contesto della sua storia». In altre parole: che significato avrebbe la trama di questo romanzo (che di per se stesso è bellissimo, come lo sono tutti i romanzi famigliari di Yehoshua, tutte le storie, tutte le inquietudini solo esistenziali ambientate nelle disadorne stanze da letto, nei modesti soggiorni di Haifa e di Gerusalemme), se avvenisse in un luogo diverso da Israele? Lo stesso si può dire per l' ultimo libro di Orhan Pamuk, Il museo dell'innocenza (Einaudi). Pamuk (di cui il «Corriere» ha pubblicato lo scorso 31 dicembre un'intervista rilasciata a Dino Messina) ha dichiarato: «Nel romanzo, ovviamente, l'innocenza è anzitutto quella dei due amanti i quali infrangono il codice della verginità prematrimoniale, in cui ancora all'epoca della mia giovinezza, negli anni Settanta, esso era un tabù per la borghesia che si pretendeva occidentalizzata. Racconto come la ricerca della felicità passi oltre tutto questo». Verissimo: la felicità può e deve passare oltre tutto questo, ma il «tutto questo» è il segno del confine che dà forza a un romanzo che altrimenti perderebbe gran parte della sua forza di impatto. Intendiamoci: Il museo dell'innocenza, a dispetto della sua fluvialità e di una «pancia» centrale eccessiva, ha un' idea di fondo (quella di sostituire l'amore con gli oggetti) davvero geniale, che molto avrebbe apprezzato Flaubert, pagine straordinarie d'amore, un grande affresco della borghesia turca e vere e proprie meraviglie cittadine (moschee, parchi, neve, ristoranti, case, navi russe nella nebbia del Bosforo); tuttavia, senza il confine della verginità perduta che disegna un popolo, dei costumi e un'epoca, perderebbe parecchio. Come perderebbero parecchio i racconti e i romanzi di un altro straordinario scrittore: V. S. Naipaul, indiano trapiantato a Trinidad e poi da Trinidad in Occidente. Nei suoi romanzi e nei suoi racconti (oltre al capolavoro, Una casa per il signor Biswass, pubblicato in Italia da Adelphi, romanzo che pari pari avrebbe potuto scrivere Dickens), il senso dello spaesamento, della fragilità, della paura che animano molti dei suoi protagonisti privati di una patria e una identità (penso per esempio ai tre racconti che fanno da contorno a In uno stato libero o al capitolo centrale de L'enigma dell'arrivo) è devastante. E, per tale motivo, fondamentale. Questo, in definitiva, è il punto. Un punto per il quale non resta che una sola conclusione. Da rivolgere allo scrittore occidentale che racconta di corpi, d' anima, di famiglie e d'amore senza avere il contorno, attorno a sé, di alcun confine, bensì la fittissima nebbia della normalità. Cosa deve fare questo scrittore occidentale i cui libri al pubblico, ovviamente, interessano meno degli altri? Nulla. Deve continuare a scrivere i suoi romanzi e i suoi racconti. Sapendo che fra molti anni, chissà quando, questa «normalità» anonima sarà il nuovo «confine» in cui si riconoscerà il mondo.
«Corriere della Sera» del 2 gennaio 2010
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