di Andrea Vaccaro
Da qualche tempo, nel campo della scienza, stiamo assistendo a spettacoli a cui, francamente, non eravamo abituati. Contrapposte fazioni di parte sono la sostanza della politica da quando, per l’appunto, sono nati i partiti; visioni divergenti sono comparse sin dagli albori della filosofia; anche le comunità religiose hanno vissuto, con sofferenza, scissioni interne. Che questo potesse però accadere anche alla scienza – ultimo baluardo di pensiero unico – era del tutto inaspettato.
Il destro è stato offerto dal dibattito interno alla neuroscienza su cervello, mente e coscienza; oggetto di disputa è finito per diventare uno dei tratti strategici dell’iter scientifico, nientemeno che il metodo riduzionista. Sin dalle origini e per statuto, la scienza ha seguito la prassi di ricondurre ogni fenomeno ai suoi costituenti ultimi materiali per poterli poi studiare tramite le leggi della fisica e della chimica. E i risultati conseguiti sono stati ineccepibili. Dinanzi alla realtà del mentale, però, qualcosa si è rotto; il paradigma riduzionista è deflagrato e l’insoddisfazione a lungo trattenuta da parte di alcuni scienziati ed epistemologi è straripata quasi con virulenza linguistica. Le risposte non si sono lasciate attendere e così la polemica è cresciuta di tono. Gerald Edelman, che può vantare un premio Nobel per la Fisiologia e numerosi e importanti studi sul tema, scrive che: «nonostante il successo riportato finora, il riduzionismo diventa sciocco se applicato in maniera assoluta alla materia della mente»; più che inadeguato, esso è «semplicemente assurdo», come voler cogliere il mistero affascinante della Gioconda analizzando uno ad uno i suoi pigmenti di colore (Sulla materia della mente). A Thomas Nagel, autore di un argomento cruciale di filosofia della mente, il «programma riduzionista» applicato alla coscienza appare «completamente fuorviante», «estremamente implausibile», «intellettualmente arretrato e scientificamente suicida » (Uno sguardo da nessun dove). Per Jerry Fodor, nome altisonante nell’ambito delle scienze cognitive, quel fisicalismo sbandierato ad oltranza da scienziati «perdutamente innamorati di neuroni e connessioni sinaptiche» è spudoratamente una «assunzione metafisica», per di più, di una metafisica «totalmente assurda» e «folle» (Cervelli che parlano). Lo spazio andrebbe ingigantito per rendere l’idea di quanto folto sia tale schieramento critico.
Per John Searle, certo riduzionismo è «profondamente antiscientifico e incoerente »; per David Chalmers «nessuna spiegazione data interamente in termini fisici potrà mai rendere conto dell’emergere dell’esperienza conscia»; per Donald Davidson «i concetti per descrivere il pensiero hanno un carattere normativo irriducibile »; secondo Joseph Levine «tra il fisico e l’esperienza cosciente vi sarà sempre una lacuna esplicativa (explanatory gap) »; Gregory Bateson definiva il materialismo riduzionista «un incubo insensato». Dalla sponda opposta, con altrettanta sicurezza, si ribadisce che la scienza è riduzionista o non è scienza e si qualificano tali argomentazioni come sciatte, ostili alla vera conoscenza, antiscientifiche per eccellenza. Sinora la scienza aveva controbattuto, compatta, ad obiezioni provenienti da fonti esterne, compresa la fonte religiosa.
Adesso le obiezioni nascono all’interno: su aspetti metodologici centrali; da voci indiscutibilmente autorevoli; con espressioni perfino veementi. Forse qualcosa di nuovo e di davvero notevole, in questo ambito, sta prendendo forma.
Il destro è stato offerto dal dibattito interno alla neuroscienza su cervello, mente e coscienza; oggetto di disputa è finito per diventare uno dei tratti strategici dell’iter scientifico, nientemeno che il metodo riduzionista. Sin dalle origini e per statuto, la scienza ha seguito la prassi di ricondurre ogni fenomeno ai suoi costituenti ultimi materiali per poterli poi studiare tramite le leggi della fisica e della chimica. E i risultati conseguiti sono stati ineccepibili. Dinanzi alla realtà del mentale, però, qualcosa si è rotto; il paradigma riduzionista è deflagrato e l’insoddisfazione a lungo trattenuta da parte di alcuni scienziati ed epistemologi è straripata quasi con virulenza linguistica. Le risposte non si sono lasciate attendere e così la polemica è cresciuta di tono. Gerald Edelman, che può vantare un premio Nobel per la Fisiologia e numerosi e importanti studi sul tema, scrive che: «nonostante il successo riportato finora, il riduzionismo diventa sciocco se applicato in maniera assoluta alla materia della mente»; più che inadeguato, esso è «semplicemente assurdo», come voler cogliere il mistero affascinante della Gioconda analizzando uno ad uno i suoi pigmenti di colore (Sulla materia della mente). A Thomas Nagel, autore di un argomento cruciale di filosofia della mente, il «programma riduzionista» applicato alla coscienza appare «completamente fuorviante», «estremamente implausibile», «intellettualmente arretrato e scientificamente suicida » (Uno sguardo da nessun dove). Per Jerry Fodor, nome altisonante nell’ambito delle scienze cognitive, quel fisicalismo sbandierato ad oltranza da scienziati «perdutamente innamorati di neuroni e connessioni sinaptiche» è spudoratamente una «assunzione metafisica», per di più, di una metafisica «totalmente assurda» e «folle» (Cervelli che parlano). Lo spazio andrebbe ingigantito per rendere l’idea di quanto folto sia tale schieramento critico.
Per John Searle, certo riduzionismo è «profondamente antiscientifico e incoerente »; per David Chalmers «nessuna spiegazione data interamente in termini fisici potrà mai rendere conto dell’emergere dell’esperienza conscia»; per Donald Davidson «i concetti per descrivere il pensiero hanno un carattere normativo irriducibile »; secondo Joseph Levine «tra il fisico e l’esperienza cosciente vi sarà sempre una lacuna esplicativa (explanatory gap) »; Gregory Bateson definiva il materialismo riduzionista «un incubo insensato». Dalla sponda opposta, con altrettanta sicurezza, si ribadisce che la scienza è riduzionista o non è scienza e si qualificano tali argomentazioni come sciatte, ostili alla vera conoscenza, antiscientifiche per eccellenza. Sinora la scienza aveva controbattuto, compatta, ad obiezioni provenienti da fonti esterne, compresa la fonte religiosa.
Adesso le obiezioni nascono all’interno: su aspetti metodologici centrali; da voci indiscutibilmente autorevoli; con espressioni perfino veementi. Forse qualcosa di nuovo e di davvero notevole, in questo ambito, sta prendendo forma.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010
Nessun commento:
Posta un commento