A Parigi una mostra con centinaia di manoscritti ha ricostruito i mille temi della leggenda
di Cesare Segre
Il mito resta ricco e vitale, capace di adattarsi a ogni cultura
La mistificazione può avere un successo anche enorme. Basta pensare alla Storia dei re di Bretagna, scritta da Goffredo di Monmouth in latino prima del 1138, che racconta le vicende della Bretagna e dell' Inghilterra dopo l' evacuazione dei Romani (410 d. C.). Vi campeggia la figura di Artù, re guerriero in lotta contro i tentativi d' invasione da parte degli Anglosassoni (sec. VI). Artù, allievo del mago Merlino, estrae dalla roccia la spada Excalibur, conquista la Gallia, combatte con successo l' imperatore di Roma, e cade ferito a Salisbury, ad opera di Mordred, nipote traditore. Si fa trasportare nell' isola di Avalon, dalla quale tornerà un giorno per liberare il suo popolo dalla dominazione straniera. Di questa trama, non c' è quasi nulla di accertato. Il nome di Artù appare soltanto nel IX secolo in una cronaca di Nennio, dov' è definito «condottiero delle guerre», poi in un cronista come Guglielmo di Malmesbury (1125 circa). Ma il complesso delle sue vicende è inventato da Goffredo di Monmouth. Pochi decenni dopo, venivano scoperte a Glastonbury (1191) due tombe, che si volle credere (lo aveva detto un bardo al re Enrico II, che lo rivelò all' abate di quel monastero) contenessero i resti di Artù e della moglie Ginevra. Le invenzioni di Goffredo e la pretesa scoperta delle tombe costituivano due momenti di un programma preciso, perseguito dai re Enrico I e Enrico II d' Inghilterra, mecenati e promotori di letteratura. Si trattava di disputare ai monarchi Capetingi, oltre che il dominio su varie regioni della Francia, anche l' antichità e nobiltà delle origini: se i Capetingi esibivano la loro discendenza da Carlo Magno, i Plantageneti potevano ora vantare un lignaggio che risaliva sino ad Artù. E in verità la letteratura arturiana nacque da questo programma, e, nel panorama dei generi letterari, il romanzo di argomento bretone fece concorrenza, con successo, alla chanson de geste carolingia. Il mito arturiano si rivelò subito estremamente vitale. Esso assorbì personaggi e leggende estranee alle prime narrazioni: per esempio Tristano e Isotta, che tra l' altro fornirono il modello, adulterino e carnale, e perciò in contrasto con i principi della cortesia, all' amore del giovane cavaliere Lancillotto per la regina Ginevra. Altra leggenda decisiva per il successo della produzione arturiana è quella del Graal, inventata da un romanziere come Chrétien de Troyes, e diventata inesauribilmente feconda perché Chrétien, morendo, lasciò incompleto il suo romanzo (Perceval), e senza risposta i suoi enigmi, aprendo la porta alle fantasie dei posteri. Ma se la storia ha lasciato poche tracce in queste narrazioni, esse si rivelano per contro molto ricettive di mode e tendenze e ideali del tempo. Un esempio ce lo dà il frequente ricorso a un meraviglioso spesso di matrice brettone. Vi sono fate, ora seduttrici, ora prepotenti; vi sono incantatori, nani maligni e «uomini selvaggi», predatori e violentatori; e poi castelli rotanti, muri d' aria invisibili ma invalicabili. Anche i simbolismi religiosi o apocalittici hanno posto in molti romanzi. E vi sono, specialmente nei dintorni del Graal, segni sempre più vistosi di ispirazione cristiana, dall' identificazione del Graal con il calice in cui Giuseppe d' Arimatea raccolse il sangue di Cristo, all' itinerario di perfezione, includente la verginità, seguito da quanti si posero alla ricerca del sacro calice, come Perceval e Galaad. La cavalleria, da occasione di avventure, diventa poco a poco cammino verso il bene. Questo episodio culturale ebbe una diffusione e una durata eccezionali. E va subito aggiunto che esso tocca nel profondo anche il mondo dell' immagine, perché i manoscritti che diffusero questi testi sono spesso miniati, talora splendidamente; e si conservano cofanetti d' avorio che rappresentano episodi della leggenda, oggetti ornamentali, come specchi, armi da parata, e così via. Una mostra alla Bibliothèque nationale de France (visitabile ancora fino a domenica 24 gennaio) ha esemplificato, con centinaia di pezzi, questo tesoro quasi inesauribile. Funge da catalogo il volume «La légende du Roi Arthur», a cura di Thierry Delcourt. Collaboratori eccellenti, come Michel Pastoureau, Philippe Ménard, Christine Ferlampin-Acher, lo stesso Delcourt, hanno saputo esporre con la massima funzionalità una vicenda che coinvolge centinaia di manoscritti, e giunge sino ai nostri giorni. In sostanza, ognuno dei capitoli centrali, che seguono un percorso descrittivo e storico, è integrato da una concisa descrizione dei manufatti presentati alla mostra, e qui esemplificati da un magnifico corredo illustrativo. Il potenziale di questa letteratura nell' immaginario è ancora forte. Quel che significava, in antico, penetrazione nelle varie classi sociali, e capacità di adattarsi alle loro aspirazioni, o anche capacità di creare situazioni in cui rivivere gli episodi più amati, nel mondo moderno diventa persistenza memoriale della leggenda, non solo attraverso capolavori come il Parsifal e il Tristano e Isotta di Wagner, o raffinate evocazioni pittoriche come quelle di Gaston Bussière e di Edward Burne-Jones, ma anche, a un livello più popolare, tramite film e albi di fumetti. Le pagine del volume sono uno stimolo per i nostri ricordi.
«Corriere della Sera» del 22 gennaio 2010
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