di Maurizio Bono
"Il maestro è un mi..., un mi...». «Un missile!», rispondevano i ragazzi in coro nell'indimenticabile Maestro di Vigevano di Mastronardi. E lui: ma no, è un missionario! Mezzo secolo dopo, al supplente di Bianca come il latte, rossa come il sangue, appena entrato in una classe di liceo per provarea insegnare filosofia, non va molto meglio: «Scusi prof, perché ha deciso di fare questo mestiere da sfigato?». Ma stavolta un missionario il prof lo è davvero: dello stesso ordine carismatico del Pennac di Diario di scuola e del professor Keating dell'Attimo fuggente, specializzato nel miracolo di trasformare problematici somari in studenti capaci di crescere nel cuoree nel cervello. E il romanzo, esordio (da Mondadori, pagg. 254, euro 19) dell'insegnante 32enne Alessandro D'Avenia, è un ponte gettato tra l'isola degli eterni adolescenti alla Moccia e il romanzo di formazione. Su una sponda telefonini, messaggini afasici, stress da niente e da vuoto. Sull' altra bagliori di sentimenti intensi, curiosità dei libri e della vita. In mezzo arranca l'io narrante del sedicenne Leo, che parte odiando i congiuntivi e quando arriva si sogna scrittore: l'unico protagonista, del resto, a cui si potrebbe perdonare di inviare per 200 pagine sms alla ragazza di cui si è innamorato da lontano (sfortunatamente malata di leucemia) usando un numero sbagliato, e peggio ancora di non accorgersi mai che l' amica del cuore Silvia vorrebbe non esser solo quello. Banale? Come la vita e gli archetipi assoluti, che infatti abbondano e spingono la storia: l'amata si chiama Beatrice, il tasto T9 del telefonino è una Pizia bastarda che se digiti "paura" scrive "scusa". Più che un "numero primo" alla Paolo Giordano, Leo è un' incognita in cerca di soluzione attraverso un' equazione sentimentale. D'Avenia è laureato in lettere antiche, poi si è sorbito due anni di specializzazione in didattica («ho imparato come non insegnare, da illustri cattedratici che non hanno mai messo piede in classe») ricavandoci insieme ad altri 100mila precari l'abilitazione che dopo 400 ore di tirocinio («quello sì, utile») l'ha portato da supplente annuale in un liceo privato di Milano. Come il suo prof Sognatore, ha un coraggio da leone («se sai spiegare Dante a un dodicenne, puoi fare tutto») ed entusiasmo: «Scritto il libro, l'ho fatto girare in classe chiedendo consigli. Per loro un esempio raro di adulto che scrive per passione senza che nessuno lo obblighi, per me un editing attentissimo: qui si vede che è lei che pensa, non Leo; questo Niko che gioca a pallone è simpatico, perché non ne dice di più?». Un tribunale imberbe lega anche le mani: «Ho riscritto un sacco di pagine dove mi scappava di dire cose profonde, la realtà rende profonde le cose superficiali». Comunque glielo doveva, l'idea era nata in una classe: «Tre anni fa, al liceo Dante di Roma, coprivo un' ora buca ed è partito il gioco "massacriamo il supplente". Mi sono giocato tutto parlando di storie, e dopo un po' un ragazzo racconta di una compagna di classe meravigliosa coi capelli rossi, che in un anno se n'era andata per la leucemia. Mentre parlava il suo volto caotico da adolescente si ricomponeva in un modo adulto. Dopo tre anni di elaborazione dell' episodio, Leo mi ha detto: scrivimi. Ho iniziato in terza persona, tre pagine e ho buttato tutto. Ho ricominciato con la sua voce e ne ho scritte 40 di getto». Pazienza, insomma, se Leo dice frasi come «un bacio è un ponte rosso che costruiamo tra le nostre anime». «È più grave avere nostalgia dell' adolescenza e aggiustarsela nel ricordo. Se gli adulti la rimpiangono, ai ragazzi chi glielo fa fare, di uscirne?». E pazienza se oggi l' adolescenza pare così fragile da abbisognare di soli insegnanti di sostegno: «Mi sono rotto le scatole del pessimismo che tarpa le ali ai ragazzi. Io ho fatto la scuola pubblica a Palermoe miè bastato un insegnante chea 65 anni balbettava ancora di emozione leggendo certi passi. Statisticamente almeno uno così tocca a tutti». L' ottimismo è tale che in Bianca come il latte rossa come il sangue non ci sono bulli, anoressiche, cubiste, tantomeno un Garrone magari immigrato, a rappresentare difficoltà non risolvibili in un attimo fuggente. Ma il missionario ha già abbastanza da fare nella sua tribù middle class: «Parlo di un liceo classico, su 40 alunni due hanno problemi alimentari. Volevo raccontare i 38. Sa cosa mi preoccupa? Che qualche anno avrebbero tifato perché nel finale di Truman show il protagonista scappasse alla finzione, ora tifano per entrare in un reality. Io dico loro di cercare il proprio sogno e farne un progetto perché è il solo modo di stare nella realtà».
«La Repubblica» del 27 gennaio 2010
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