Europa, laicità, questione islamica: Giuliano Amato discute le tesi del filosofo Fred Dallmayr sul dialogo tra le culture
di Giuliano Amato
La secolarizzazione non annulla il sacro, anzi può indurre a riscoprirlo
Fred Dallmayr, figlio del Vecchio Continente, dove è nato e si è formato, si è trasferito poi negli Stati Uniti, dove è diventato professore e dove attualmente insegna filosofia politica e teoria politica comparata all'Università cattolica di Notre Dame, nell'Indiana. Ha scritto più volte delle civiltà del mondo e fu protagonista dell'incontro annuale del 2005 dell'Associazione americana di scienze politiche, con una relazione, Mobilising Democracy, nella quale sosteneva (e si era in piena avventura irachena) che la diffusione della democrazia nel mondo può avvenire solo attraverso una fertilizzazione incrociata di culture, mai con l'imposizione dall'esterno. È quel Dallmayr che troviamo nel libro Il dialogo delle culture. Metodo e protagonisti, uscito in America nel 2002 ma scritto largamente prima dell'11 settembre 2001, quando il 2001 era ancora l'anno che le Nazioni Unite avevano dedicato al dialogo fra le civiltà e che Giovanni Paolo II aveva aperto il 1° gennaio con un suo messaggio a favore della «civiltà dell'amore». Come preannuncia il titolo, la trama argomentativa viene intessuta nel libro avvalendosi di «voci esemplari», raccolte in parti diverse del mondo e alle quali sono affidate buona parte delle opinioni dello stesso autore. Ci sono il Mahatma Gandhi e Jürgen Habermas, Bassam Tibi e Charles Taylor, Martin Heidegger e Abdoulkarim Soroush, Raimon Panikkar e Jacques Derrida. C'è, più di tutti, Hans-Georg Gadamer, al quale il libro è dedicato e che in più punti di esso offre tanto il «la» iniziale quanto le conclusioni sui temi volta a volta trattati. Le ragioni del dialogo - osserva Dallmayr facendo leva su Gadamer - le troviamo in primo luogo all'interno di ciascuna civiltà, giacché nessuna di esse è un monolite. Non lo è quella islamica, segnata molto dalla sua religione e quindi dalle tante e confliggenti interpretazioni a cui questa è soggetta, ma non lo è neppure la nostra. La civiltà europea ha infatti nelle sue radici il conflitto fra la cosmologia greca, fondata su un ordine certo e precostituito dell'universo, e la strada umanamente incerta verso il futuro, indicata dal cristianesimo. Due impianti culturali lontani fra loro, che si sono fronteggiati, si sono poi alleati per tutti i secoli nei quali l'escatologia cristiana ha ritenuto di avvalersi della totalità del sapere di origine greca, si sono infine contrapposti in modo irreversibile quando le scienze moderne hanno disintegrato quella totalità, nonostante i ripetuti tentativi di questa di sopravvivere su fondamenta ideologiche o religiose. Di qui conflitti infraculturali che, aggiungendosi ai possibili conflitti interculturali, portano a chiedersi se non potremo tornare, o non siamo addirittura tornati, alla maledizione di Babele. Dipende da noi - ci dice Dallmayr - perché che Babele sia una maledizione è solo un pregiudizio duro a morire. Non a caso il suo libro inizia con una bellissima citazione del Corano: «Vi ho creato in nazioni e tribù, in modo che vi poteste conoscere e fare amicizia; non perché restaste tronfi della vostra tradizione». Certo il percorso della «conversazione dell' umanità», come la definiva Michael Oakeshott, non è semplice. Non ci possiamo illudere su un impossibile ritorno all' unità universale di Platone. E se non vogliamo cadere all' opposto in una schiera di particolarismi chiusi l'uno all'altro, non c'è che la razionalità comunicativa di Habermas, quella unità, cioè, che risulta dal «capirsi» nel passaggio da una lingua all'altra. L'unità possibile è dunque il frutto di un apprendimento reciproco. Ma l'Europa è pronta a un esercizio del genere? Qui il tema centrale - secondo Dallmayr - è quello proposto da Derrida, e cioè l'oscillazione europea fra l'autoimposizione di sé in chiave di eurocentrismo da una parte e, dall' altra, la totale negazione di sé all' insegna di un multiculturalismo vissuto come «completa e amnesiaca alterità». Quando Derrida la formulò, era probabilmente questa, e solo questa, l'analisi che si poteva fare del problema europeo. Ma alcuni anni dopo, in un'Europa che con le corti europee vieta i crocefissi nelle scuole italiane mentre con quelle tedesche vieta la chiusura domenicale dei negozi a beneficio delle sole religioni che hanno nella domenica la loro festività e vieta altresì con referendum i nuovi minareti in Svizzera, mi chiedo quanto essa rifletta correttamente la nostra realtà. Certo, il dilemma di Derrida è ancora attuale e lo è nella perdurante vitalità della political correctness formatasi attorno ai valori inscritti in tutte le carte europee - la rule of law, i diritti individuali, la laicità dello Stato, l' eguaglianza e la non discriminazione. Ma a contrastarla c' è sempre di meno l'accettazione acritica delle diversità, figlia del multiculturalismo passivo messo in luce da Derrida. E c'è sempre di più il rifiuto del multiculturalismo in nome di un' autoaffermazione di sé che non è quella dei valori liberaldemocratici, ma è quella dell' integralismo etnico e religioso pronto a trasformarsi in xenofobia. A contrapporsi, dunque, sono due opposte autoaffermazioni di sé. Ciò rende ancora più problematico l'assolvimento del ruolo positivo che l'Europa potrebbe svolgere ai fini di un proficuo dialogo interculturale e interreligioso nei termini che Dallmayr fa propri, vale a dire apertura alle diversità, accompagnata però dalla capacità di far valere come guida la cultura dei valori liberaldemocratici. È questo in effetti che serve a convincere chi si è formato altrimenti a innestare quei valori fra i parametri delle proprie scelte. Ed è così che si forma la cornice di cui ha bisogno la «razionalità comunicativa» che può consentire l'incontro con quanti combattono integralismi e rigidità da altre sponde. Mentre desta perciò inquietudine l'Europa (ma il suo retroterra liberaldemocratico è ancora forte), suscitano speranza voci da altre sponde come quella di Soroush, scelta da Dallmayr quale principale voce esemplificativa dell' islam dialogante. Da Soroush Dallmayr trae tre proposizioni, che, se fossero davvero condivise nel mondo islamico, sarebbero tre robusti piloni di un ponte di autentico dialogo. La prima è che va rigettata l'unità olistica dei tradizionalisti e quindi la sovranità di Dio sulle cose terrene fatta valere da un' intransigente avanguardia musulmana, perché è profondamente contraria al Corano, nel quale è scritto: «Nessuna costrizione nelle cose di fede». La seconda è la necessità di tenere separate religione e politica, seguendo una benefica tendenza portata dalla modernità. La terza è l'elogio del secolarismo, in quanto sottoposizione a critica razionale di qualsivoglia argomento portato nella sfera pubblica. Né - aggiunge Soroush rivolto ai suoi integralisti (ma potrebbe dirlo allo stesso modo agli integralisti di qualunque religione) - ciò significa «relativismo radicale» o addirittura abbandono della religione. Significa soltanto tolleranza democratica, ed è questo che ci permette non di cedere agli altri, ma di comunicare con loro. È una conclusione che incontra sul suo stesso terreno la cultura liberaldemocratica europea e potremmo solo desiderare che nel mondo islamico fosse meno minoritaria di quanto non sia. Se ci fermassimo qui nell' esame degli opposti fronti di chi è o non è aperto al dialogo, arriveremmo a concludere con la contrapposizione, certo non sorprendente, da una parte di coloro che vedono la sfera civile sotto il dominio della (loro) religione e dall' altra di quelli che separano sfera civile e sfera religiosa, pretendendo nella prima la «tolleranza democratica» di Soroush e assegnando alla seconda un ambito non «temporale», che la tiene al riparo. A scompaginare però le carte di questa semplicistica e troppo facile modellistica in chiave di eteronomia o di autonomia, giunge Raimon Panikkar. Anche lui sostiene che la secolarizzazione è stata ed è un processo liberatorio e che, dunque, l'eteronomia va superata. Ma la secolarizzazione non libera la sfera temporale dalla religione, al contrario consente di scoprire il sacro che vive nell' uomo e quindi nella stessa dimensione temporale. La religione, anzi, è proprio qui, perché qui sono la sua forza vivificante e il segno del divino. Tocca agli esseri umani scorgere quel segno. Sono argomenti difficili da contrastare, soprattutto per chi è di fede cristiana. Certo si è che complicano non poco le cose nel rapporto fra religione e politica, perché di sicuro non consentono di separarle, così come ogni laico tradizionalmente ritiene giusto che sia. È una religione che vive nelle coscienze di quanti ne percepiscono la presenza nelle vicende terrene, non è una religione imposta da una gerarchia. Ma può farsi sentire con vigore anche maggiore nel porre limiti a libertà sconfinate, a scoperte scientifiche dagli effetti ignoti, a offese di ciò che è sentito come sacro. Si badi, quella di Panikkar non è una posizione marginale. Molti cattolici leggono la stessa visione nel pontificato di Giovanni Paolo II. In base a essa può aprirsi una storia a cui i laici, abituati a contrastare le «interferenze» delle gerarchie ecclesiastiche, non sono preparati. È infatti una (possibile) storia che, come è implicito nel post-secolarismo di Habermas, ha come naturali i confini che la libertà dà a se stessa. Non lo scadimento nella centralità del proprio io e nell' autoindulgenza, ma l'autodeterminazione guidata e in qualche modo limitata dai valori.
Comprensione reciproca per avvicinare i popoli Anticipiamo un testo tratto dal numero in uscita della rivista «Reset», diretta da Giancarlo Bosetti. Si tratta della prefazione di Giuliano Amato al libro di Fred Dallmayr Il dialogo tra le culture. Metodo e protagonisti, in uscita il 17 febbraio per la collana I libri di Reset (Marsilio, pp. 208, Euro 12). Fred Dallmayr, filosofo dell' Università di Notre Dame nell' Indiana, propone tra i protagonisti del dialogo Gandhi e Habermas, Gadamer, Soroush e Panikkar.
«Corriere della Sera» del 21 gennaio 2010
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