L'ultima Mac-invenzione
di Francesco Ognibene
Furbo e navigato com’è, Steve Jobs ha giocato sull’aura miracolistica che lo circonda: «L’ultima volta che c’è stata tanta emozione per una tavoletta c’erano dei comandamenti scritti sopra...». Col nuovo iPad tra le mani, il leader carismatico della Apple ha volutamente alleggerito l’atmosfera di attesa che circondava l’evento di San Francisco durante il quale, martedì, l’azienda americana ha svelato il suo nuovo strumento per leggere libri e giornali elettronici, ascoltare musica e comunicare. I più recenti debutti di prodotti Apple autorizzavano pronostici fantasiosi: lanciando l’iPod, Jobs ha stravolto il mercato della musica, mentre con l’iPhone ha proiettato nel futuro lo standard per la telefonia mobile. Inevitabile supporre che l’iPad fosse destinato a creare sbalordimento sin dal primo vagito, un’icona della rivoluzione digitale prima ancora che lo si fosse materialmente visto. La fama messianica che ormai avvolge Jobs ha spinto ieri il compassato Economist a riprodurlo in copertina nei panni di un aureolato evangelista con la mac-tavoletta al posto del Vangelo, sotto un titolo – «Il Libro di Jobs» – che completa umoristicamente la sintesi del clima col quale è stata accolta la lavagnetta elettronica. Una metafora pop che ha centrato l’aspetto decisivo della vicenda: per la prima volta i più ansiosi di conoscere cosa si fosse inventato Mister Apple non erano i consumatori. Ad augurarsi che tra le mani di Jobs apparisse l’«iPod della stampa», lo strumento in grado di generare un business dal nulla, sono infatti gli editori che hanno visto sgretolarsi le proprie quote di mercato sotto l’effetto di un fenomeno apparentemente inarrestabile: la possibilità di consultare gratis su Internet ciò che fino a ieri aveva un pur modesto prezzo. Nell’era delle notizie via Web, il valore intrinseco dell’informazione non sembra equivalere più a un doveroso costo per chi vuole disporne. I siti dei giornali spiazzano le edizioni cartacee erodendo quasi sempre le copie diffuse in edicola, fino a costringere in America antiche imprese editoriali all’onta della bancarotta.
Questo scenario giustifica l’agiografia del boss di Apple: l’informazione non si sente più padrona del proprio futuro ma – a corto di idee efficaci per scongiurare il temuto collasso – si consegna interamente al Grande Inventore, al guru che ha già resuscitato l’industria discografica e sembra disporre dello stampo magico per supporti elettronici presto inseparabili dalla nostra quotidianità. Un’ammissione d’impotenza, quasi una resa di fronte alla post-modernità digitale capace di spazzar via modelli di consumo dell’informazione ritenuti inattaccabili. E di farlo paradossalmente nel nome di una domanda inesausta di notizie, una fame senza precedenti che cerca soddisfazione senza far più troppo caso all’autorevolezza della fonte.
Che grazie all’iPad gli editori riescano a intercettare questa bulimìa informativa trovando il modo di tornare a guadagnarci qualcosa è una storia ancora tutta da scrivere. Ma intanto a Steve Jobs il sistema dell’informazione 'tradizionale' sembra aver consegnato le chiavi di casa, lanciando il preoccupante segnale di una scommessa concentrata sul supporto di lettura assai più che sulla qualità delle notizie e del modo di proporle. Anziché rilanciare il patto fiduciario che lega una testata ai propri lettori e alla loro libertà si confida in un nuovo miracolo di Jobs, che certo non potrà ripetersi se il valore dei contenuti e la loro pertinenza rispetto alle attese più autentiche (e sovente inespresse) dei lettori restano quelle che vediamo circolare più frequentemente sui media di casa nostra.
È possibile che il deterioramento della qualità informativa e l’esplosione delle sorgenti alle quali attingere notizie di dubbia tracciabilità conduca presto o tardi a riscoprire che – nel mare in tempesta delle news – occorre trovare un porto sicuro, un marchio di garanzia del quale potersi fidare. Ma su questa informazione 'certificata' urge investire ogni risorsa di creatività, di intelligenza, di responsabilità. Diversamente, potrebbe non bastare persino l’aureola di Steve.
Questo scenario giustifica l’agiografia del boss di Apple: l’informazione non si sente più padrona del proprio futuro ma – a corto di idee efficaci per scongiurare il temuto collasso – si consegna interamente al Grande Inventore, al guru che ha già resuscitato l’industria discografica e sembra disporre dello stampo magico per supporti elettronici presto inseparabili dalla nostra quotidianità. Un’ammissione d’impotenza, quasi una resa di fronte alla post-modernità digitale capace di spazzar via modelli di consumo dell’informazione ritenuti inattaccabili. E di farlo paradossalmente nel nome di una domanda inesausta di notizie, una fame senza precedenti che cerca soddisfazione senza far più troppo caso all’autorevolezza della fonte.
Che grazie all’iPad gli editori riescano a intercettare questa bulimìa informativa trovando il modo di tornare a guadagnarci qualcosa è una storia ancora tutta da scrivere. Ma intanto a Steve Jobs il sistema dell’informazione 'tradizionale' sembra aver consegnato le chiavi di casa, lanciando il preoccupante segnale di una scommessa concentrata sul supporto di lettura assai più che sulla qualità delle notizie e del modo di proporle. Anziché rilanciare il patto fiduciario che lega una testata ai propri lettori e alla loro libertà si confida in un nuovo miracolo di Jobs, che certo non potrà ripetersi se il valore dei contenuti e la loro pertinenza rispetto alle attese più autentiche (e sovente inespresse) dei lettori restano quelle che vediamo circolare più frequentemente sui media di casa nostra.
È possibile che il deterioramento della qualità informativa e l’esplosione delle sorgenti alle quali attingere notizie di dubbia tracciabilità conduca presto o tardi a riscoprire che – nel mare in tempesta delle news – occorre trovare un porto sicuro, un marchio di garanzia del quale potersi fidare. Ma su questa informazione 'certificata' urge investire ogni risorsa di creatività, di intelligenza, di responsabilità. Diversamente, potrebbe non bastare persino l’aureola di Steve.
«Avvenire» del 30 gennaio 2010
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