Giovanni Reale racconta come Dante, Raffaello e Galileo siano diventati i pilastri dell’intera cultura europea
di Giovanni Reale
Prosegue il dibattito sull’identità nazionale lanciato dal Giornale martedì scorso con un articolo dello storico Eugenio Di Rienzo. Cosa significa essere italiani oggi? Hanno risposto a questa domanda: Giordano Bruno Guerri, Romano Bracalini, Franco Cardini e Luca Ricolfi. Oggi proseguiamo con un doppio intervento: del filosofo Giovanni Reale e del nostro Mario Cervi. Anche i lettori possono intervenire nella discussione, scrivendo una e-mail all’indirizzo essereitaliani@ilgiornale.it o visitando il sito www.ilgiornale.it
Gli italiani in genere parlano male di se stessi e si autocriticano in modo spesso eccessivo, dimenticando quelli che sono i loro pregi. Io mi soffermerò su quel pregio che in passato è emerso in primo piano (e che non credo sia scomparso del tutto, anche se al momento sembra essere latente), che consiste nel gusto e nella forza della creazione spirituale, che in alcuni casi ha portato gli italiani a essere dei modelli, come dimostrano alcuni esempi ai quali farò subito richiamo. Dante, per esempio, è da molti considerato poeta in sommo grado, cui è difficile trovare l’eguale dopo Omero, e per giudizi che provengono non da casa nostra ma dagli stranieri.
Nella metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo, dopo essermi laureato in Italia, ho studiato in Germania, a Marburgo e a Monaco, per alcuni semestri estivi. In quanto già laureato, ero ammesso a tavola con i professori universitari, i quali in genere parlavano molto male di noi, considerandoci sotto molti aspetti inaffidabili. Un giorno un professore ha varcato ogni limite di decenza, e, di ritorno dalla Sicilia, ha descritto gli italiani in modo veramente offensivo, al punto che non ho potuto non prendere posizione, e gli ho rinfacciato quanto segue: «Voi tedeschi parlate malissimo di noi, ma quante volte siete venuti in Italia e ci avete mangiato?». Il professore non ha cambiato idea, e mi ha risposto: «Sì, vi abbiamo mangiato non poche volte, ma voi ci avete guastato lo stomaco». Questo dice molto sul sentimento di avversione che allora certi tedeschi avevano di noi (e che alcuni, anche se in modo assai più sfumato, continuano ad avere). Ma alcune settimane dopo ebbi però una grande sorpresa. Il decano, constatando che leggevo molti scritti di Goethe, mi disse: «Vedo che lei apprezza molto il nostro grande Goethe, ma il vostro Dante è ancora più grande. Goethe è molto legato a una cultura particolare, il vostro Dante è più universale».
Tale giudizio - tenuto conto che veniva da un ambiente tutt’altro che favorevole agli italiani - si impone addirittura come paradigmatico. Il grande poeta T.S. Eliot dice ancora di più. Paragonando Dante con Shakespeare (che da uomini di cultura anglosassone è, in genere, considerato poeta massimo) trova che Dante superi Shakespeare in profondità (Shakespeare è più grande nella descrizione delle passioni in senso orizzontale, ma nel senso verticale, ossia per profondità, Dante è superiore). Anzi, in un saggio del 1929, Eliot scrive: «Dante è il poeta più “universale” che abbia scritto in una lingua moderna. (…) Dante, pur essendo un italiano e un uomo di parte, è prima di tutto un europeo». E precisa: Dante «pensava allo stesso modo di chiunque altro della stessa cultura in Europa». Egli leggeva ed esprimeva le idee di quei pensatori di vari paesi che formavano la cultura europea: Tommaso, italiano; Alberto Magno, tedesco; Abelardo, francese; Ugo e Riccardo di San Vittore, scozzesi. Pertanto, «la cultura di Dante non è quella di un Paese europeo, ma quella dell'Europa».
E nel saggio del 1950 Eliot conclude: «La Divina Commedia esprime nell’ambito dell’emozione tutto ciò che, compreso tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine, l’uomo è capace di sperimentare». E, proprio in conseguenza di questa sua universalità, secondo Eliot «Dante è, rispetto a tutti gli altri poeti del nostro continente, di gran lunga il più europeo». Con l’Umanesimo e col Rinascimento gli italiani hanno aperto l’età moderna dal punto di vista della cultura umanistica, e subito dopo con Galileo è iniziata la grande stagione della scienza. La triade dei pittori di quell’epoca, Leonardo, Michelangelo e Raffaello, non ha pari. Leonardo è il modello emblematico del genio universale; le pitture della Sistina di Michelangelo sono un unicum. Di Raffaello ricordo due giudizi assai significativi dati da tedeschi. Ziemmermann scriveva nell’Ottocento che «Raffaello sta accanto a Fidia», e che è un classico in quanto «il classico sta nel tempo, ma la classicità sta fuori del tempo». Nietzsche lo considerava un vulcano e una straordinaria forza creativa naturale e scriveva: «Solo perché non sapete che cosa sia una natura naturans come quella di Raffaello, non vi fa né caldo né freddo apprendere che essa fu, e che non sarà più». Per quanto riguarda la musica, fra i vari meriti della creatività degli italiani in questo campo in età barocca, emerge in primo piano la creazione dell’opera.
Il grande direttore Nikolaus Harnoncourt alla domanda fattagli in una intervista di Classic Voice «Qual è stato il più importante contributo degli italiani alla musica?», ha risposto: «Il dono fatto alla musica dagli italiani è l'opera. Claudio Monteverdi, l’inventore dell’opera, è uno dei più grandi compositori mai esistiti». E oggi? Sappiamo tutti quanto siano decadute la cultura e la scuola a tutti i livelli. Eppure abbiamo un pregio che altri non hanno. I nostri licei, quando sono fatti da insegnanti adeguati, restano i migliori. In nessun Paese del mondo si insegna filosofia come da noi, con eccellenti risultati. Tempo fa, invitato a Bonn a parlare dell’insegnamento della filosofia nei licei italiani (io ho insegnato per alcuni anni anche nei licei), ho spiegato tutta una serie di vantaggi che dava quell’insegnamento. I tedeschi si sono molto stupiti (da loro la filosofia non si insegna nei licei), e un professore mi ha obiettato: «Non meni vanto per questo, avete avuto Benedetto Croce e Giovanni Gentile, filosofi eccellenti cui risalgono le riforme per l’insegnamento della filosofia; questa è stata solo una fortuna». Al che io ho risposto: «Sì, è vero, però è stata una fortuna tutta italiana; sia Croce sia Gentile sono italiani». E gli effetti si sentono ancora oggi. L’editoria filosofica in Italia ha raggiunto livelli che oggi non hanno pari negli altri Paesi. Si pensi per esempio alla recente produzione della Bompiani, con Storie della filosofia, con l’Enciclopedia filosofica, con collane di saggi e grandi collane di classici, e con un nutrito pubblico che la sorregge. Fin che dura! - mi obiettano alcuni -, con giovani che leggono sempre di meno, quanto può durare? Questo è vero. Però, per ora, è così, e rallegriamoci.
Nella metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo, dopo essermi laureato in Italia, ho studiato in Germania, a Marburgo e a Monaco, per alcuni semestri estivi. In quanto già laureato, ero ammesso a tavola con i professori universitari, i quali in genere parlavano molto male di noi, considerandoci sotto molti aspetti inaffidabili. Un giorno un professore ha varcato ogni limite di decenza, e, di ritorno dalla Sicilia, ha descritto gli italiani in modo veramente offensivo, al punto che non ho potuto non prendere posizione, e gli ho rinfacciato quanto segue: «Voi tedeschi parlate malissimo di noi, ma quante volte siete venuti in Italia e ci avete mangiato?». Il professore non ha cambiato idea, e mi ha risposto: «Sì, vi abbiamo mangiato non poche volte, ma voi ci avete guastato lo stomaco». Questo dice molto sul sentimento di avversione che allora certi tedeschi avevano di noi (e che alcuni, anche se in modo assai più sfumato, continuano ad avere). Ma alcune settimane dopo ebbi però una grande sorpresa. Il decano, constatando che leggevo molti scritti di Goethe, mi disse: «Vedo che lei apprezza molto il nostro grande Goethe, ma il vostro Dante è ancora più grande. Goethe è molto legato a una cultura particolare, il vostro Dante è più universale».
Tale giudizio - tenuto conto che veniva da un ambiente tutt’altro che favorevole agli italiani - si impone addirittura come paradigmatico. Il grande poeta T.S. Eliot dice ancora di più. Paragonando Dante con Shakespeare (che da uomini di cultura anglosassone è, in genere, considerato poeta massimo) trova che Dante superi Shakespeare in profondità (Shakespeare è più grande nella descrizione delle passioni in senso orizzontale, ma nel senso verticale, ossia per profondità, Dante è superiore). Anzi, in un saggio del 1929, Eliot scrive: «Dante è il poeta più “universale” che abbia scritto in una lingua moderna. (…) Dante, pur essendo un italiano e un uomo di parte, è prima di tutto un europeo». E precisa: Dante «pensava allo stesso modo di chiunque altro della stessa cultura in Europa». Egli leggeva ed esprimeva le idee di quei pensatori di vari paesi che formavano la cultura europea: Tommaso, italiano; Alberto Magno, tedesco; Abelardo, francese; Ugo e Riccardo di San Vittore, scozzesi. Pertanto, «la cultura di Dante non è quella di un Paese europeo, ma quella dell'Europa».
E nel saggio del 1950 Eliot conclude: «La Divina Commedia esprime nell’ambito dell’emozione tutto ciò che, compreso tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine, l’uomo è capace di sperimentare». E, proprio in conseguenza di questa sua universalità, secondo Eliot «Dante è, rispetto a tutti gli altri poeti del nostro continente, di gran lunga il più europeo». Con l’Umanesimo e col Rinascimento gli italiani hanno aperto l’età moderna dal punto di vista della cultura umanistica, e subito dopo con Galileo è iniziata la grande stagione della scienza. La triade dei pittori di quell’epoca, Leonardo, Michelangelo e Raffaello, non ha pari. Leonardo è il modello emblematico del genio universale; le pitture della Sistina di Michelangelo sono un unicum. Di Raffaello ricordo due giudizi assai significativi dati da tedeschi. Ziemmermann scriveva nell’Ottocento che «Raffaello sta accanto a Fidia», e che è un classico in quanto «il classico sta nel tempo, ma la classicità sta fuori del tempo». Nietzsche lo considerava un vulcano e una straordinaria forza creativa naturale e scriveva: «Solo perché non sapete che cosa sia una natura naturans come quella di Raffaello, non vi fa né caldo né freddo apprendere che essa fu, e che non sarà più». Per quanto riguarda la musica, fra i vari meriti della creatività degli italiani in questo campo in età barocca, emerge in primo piano la creazione dell’opera.
Il grande direttore Nikolaus Harnoncourt alla domanda fattagli in una intervista di Classic Voice «Qual è stato il più importante contributo degli italiani alla musica?», ha risposto: «Il dono fatto alla musica dagli italiani è l'opera. Claudio Monteverdi, l’inventore dell’opera, è uno dei più grandi compositori mai esistiti». E oggi? Sappiamo tutti quanto siano decadute la cultura e la scuola a tutti i livelli. Eppure abbiamo un pregio che altri non hanno. I nostri licei, quando sono fatti da insegnanti adeguati, restano i migliori. In nessun Paese del mondo si insegna filosofia come da noi, con eccellenti risultati. Tempo fa, invitato a Bonn a parlare dell’insegnamento della filosofia nei licei italiani (io ho insegnato per alcuni anni anche nei licei), ho spiegato tutta una serie di vantaggi che dava quell’insegnamento. I tedeschi si sono molto stupiti (da loro la filosofia non si insegna nei licei), e un professore mi ha obiettato: «Non meni vanto per questo, avete avuto Benedetto Croce e Giovanni Gentile, filosofi eccellenti cui risalgono le riforme per l’insegnamento della filosofia; questa è stata solo una fortuna». Al che io ho risposto: «Sì, è vero, però è stata una fortuna tutta italiana; sia Croce sia Gentile sono italiani». E gli effetti si sentono ancora oggi. L’editoria filosofica in Italia ha raggiunto livelli che oggi non hanno pari negli altri Paesi. Si pensi per esempio alla recente produzione della Bompiani, con Storie della filosofia, con l’Enciclopedia filosofica, con collane di saggi e grandi collane di classici, e con un nutrito pubblico che la sorregge. Fin che dura! - mi obiettano alcuni -, con giovani che leggono sempre di meno, quanto può durare? Questo è vero. Però, per ora, è così, e rallegriamoci.
«Il Giornale» del 15 gennaio 2010
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