Qualcuno già lo chiama «il Moccia cattolico»: esce in questi giorni un romanzo che cita Dante per narrare l’amore tra due adolescenti E dà fiducia agli adulti
di Alessandro Zaccuri
Se ne parlerà molto. E piacerà molto. È Bianca come il latte, rossa come il sangue ( Mondadori, pagine 254, euro 19,00), romanzo d’esordio del trentaduenne Alessandro D’Avenia, una storia che ha l’immediatezza di Love Story, ma non per questo rinuncia a citare la Vita Nova, e non soltanto perché il personaggio femminile principale si chiama Beatrice ed è una versione drammaticamente aggiornata della « ragazzina con i capelli rossi » amata in segreto da Charlie Brown. All’inizio anche il protagonista- narratore, il sedicenne Leo, non trova il coraggio di dichiararsi, poi però nell’esistenza di Beatrice fa irruzione la malattia e anche nella routine adolescenziale di Leo ( e sfide in motorino, i tornei di calcetto, le partite alla Playstation) qualcosa inizia a cambiare. Merito del carismatico supplente di storia e filosofia, forse, oltre che di una coppia di genitori capace di testimoniare come ci si innamora e, più che altro, come si rimane fedeli all’amore che si è incontrato.
Leo, nel frattempo, continua a farsi domande e ogni tanto torna a fare qualche stupidaggine. Non riesce a capire in che modo si possa essere felici se esiste la morte.
Risposta impossibile? Non proprio, dato che nel frattempo Leo è riuscito a fare pace con quella parola di tre lettere che il suo telefonino si rifiuterebbe di scrivere correttamente. Ogni volta che, in uno dei tanti sms che compone soltanto per sé stesso, Leo cerca di nominare « Dio » , il sistema automatico gli propone « Fin » . E allora Leo impara a pregare Fin, salvo poi rendersi conto che ha sempre pregato Dio. Laureato in lettere classiche, insegnante nei licei, non estraneo alla pratica della sceneggiatura, D’Avenia riesce a fare tesoro di tutte queste esperienze in un libro che parla con la voce di Leo. Fosse per lui, non si interesserebbe a Dante, ma si piano piano si rende conto che la storia della Vita Nova è una storia di sempre e che può essere raccontata anche con le parole di oggi. Certo, nella trama di Bianca come il latte, rossa come il sangue c’è qualche svolta forse un po’ troppo annunciata (del resto anche Erich Segal, l’autore di Love Story, era un classicista, proprio come D’Avenia), ma l’aspetto più interessante del romanzo sta altrove, e cioè nella rappresentazione per una volta non catastrofista né banale della condizione dell’adolescenza. Se nel mondo immaginato da Federico Moccia (giusto per chiamare in causa uno degli autori con cui, c’è da scommetterci, D’Avenia verrà messo a confronto) la gioventù è un’età perfetta dalla quale non si vorrebbe mai uscire e alla quale i maschi adulti cercando di ritornare innamorandosi delle ragazzine, in Bianca come il latte, rossa come il sangue avere sedici anni significa prepararsi ad averne 17, e poi 18, venti. In una parola, a crescere. Non da soli, questo è il dato più significativo. Leo ha sempre accanto a sé qualcuno più grande a lui, che lo guida e lo incoraggia. Può essere il prof. a cui ha affibbiato il soprannome di « Sognatore » oppure il padre, che lo accompagna in ospedale a compiere il suo primo gesto da uomo, una donazione di sangue che aiuti Beatrice a essere un po’ più rossa e un po’ meno bianca.
C’è perfino un prete, e non è una macchietta, ma un uomo che ascolta e, posto davanti alla domanda delle domande (quella sulla felicità e la morte, ricordate?), non dice nulla, si limita a lasciare in dono un crocifisso. Sì, questo è un libro inusuale sotto molti aspetti.
Eppure piacerà, piacerà molto.
Gli adulti, in particolare i genitori degli adolescenti, lo leggeranno sperando di intrufolarsi nei pensieri dei loro figli e ne riceveranno la consolazione di scoprire che non sempre la ribellione nasce dalla rabbia, ma al contrario può essere un modo per trovare la propria strada nel mondo. E lo leggeranno gli insegnanti, che non venivano trattati con tanta fiducia dai tempi dell’Attimo fuggente, uno dei molti titoli che, non a caso, il « Sognatore » cita nelle sue lezioni così accattivanti. Piacerà anche ai ragazzi? La vera sfida di D’Avenia, in fondo, è questa. Nei prossimi mesi, di sicuro, avremo modo di verificare se, come c’è da augurarsi, è riuscito a vincerla.
Leo, nel frattempo, continua a farsi domande e ogni tanto torna a fare qualche stupidaggine. Non riesce a capire in che modo si possa essere felici se esiste la morte.
Risposta impossibile? Non proprio, dato che nel frattempo Leo è riuscito a fare pace con quella parola di tre lettere che il suo telefonino si rifiuterebbe di scrivere correttamente. Ogni volta che, in uno dei tanti sms che compone soltanto per sé stesso, Leo cerca di nominare « Dio » , il sistema automatico gli propone « Fin » . E allora Leo impara a pregare Fin, salvo poi rendersi conto che ha sempre pregato Dio. Laureato in lettere classiche, insegnante nei licei, non estraneo alla pratica della sceneggiatura, D’Avenia riesce a fare tesoro di tutte queste esperienze in un libro che parla con la voce di Leo. Fosse per lui, non si interesserebbe a Dante, ma si piano piano si rende conto che la storia della Vita Nova è una storia di sempre e che può essere raccontata anche con le parole di oggi. Certo, nella trama di Bianca come il latte, rossa come il sangue c’è qualche svolta forse un po’ troppo annunciata (del resto anche Erich Segal, l’autore di Love Story, era un classicista, proprio come D’Avenia), ma l’aspetto più interessante del romanzo sta altrove, e cioè nella rappresentazione per una volta non catastrofista né banale della condizione dell’adolescenza. Se nel mondo immaginato da Federico Moccia (giusto per chiamare in causa uno degli autori con cui, c’è da scommetterci, D’Avenia verrà messo a confronto) la gioventù è un’età perfetta dalla quale non si vorrebbe mai uscire e alla quale i maschi adulti cercando di ritornare innamorandosi delle ragazzine, in Bianca come il latte, rossa come il sangue avere sedici anni significa prepararsi ad averne 17, e poi 18, venti. In una parola, a crescere. Non da soli, questo è il dato più significativo. Leo ha sempre accanto a sé qualcuno più grande a lui, che lo guida e lo incoraggia. Può essere il prof. a cui ha affibbiato il soprannome di « Sognatore » oppure il padre, che lo accompagna in ospedale a compiere il suo primo gesto da uomo, una donazione di sangue che aiuti Beatrice a essere un po’ più rossa e un po’ meno bianca.
C’è perfino un prete, e non è una macchietta, ma un uomo che ascolta e, posto davanti alla domanda delle domande (quella sulla felicità e la morte, ricordate?), non dice nulla, si limita a lasciare in dono un crocifisso. Sì, questo è un libro inusuale sotto molti aspetti.
Eppure piacerà, piacerà molto.
Gli adulti, in particolare i genitori degli adolescenti, lo leggeranno sperando di intrufolarsi nei pensieri dei loro figli e ne riceveranno la consolazione di scoprire che non sempre la ribellione nasce dalla rabbia, ma al contrario può essere un modo per trovare la propria strada nel mondo. E lo leggeranno gli insegnanti, che non venivano trattati con tanta fiducia dai tempi dell’Attimo fuggente, uno dei molti titoli che, non a caso, il « Sognatore » cita nelle sue lezioni così accattivanti. Piacerà anche ai ragazzi? La vera sfida di D’Avenia, in fondo, è questa. Nei prossimi mesi, di sicuro, avremo modo di verificare se, come c’è da augurarsi, è riuscito a vincerla.
«Avvenire» del 27 gennaio 2010
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