di Marco Mancassola
Una versione ridotta di questo mio commento è uscita su Il Manifesto del 20 dicembre 2009 con il titolo Giovani vittime di una lingua in crisi
Nella lunga agonia della cultura borghese di sinistra, uno degli allarmi più frequenti è quello dell’arrivo dei barbari. Le vecchie generazioni lamentano che le nuove non fanno nulla di ciò che piaceva loro: non vanno al cineforum, non comprano dischi, non leggono giornali, non tappezzano di libri le pareti dei loro salotti. Passano il tempo su computer e cellulari e, soprattutto, usano un italiano sempre più povero e sgrammaticato. Proprio alla caduta di competenza linguistica da parte dei giovani italiani sono dedicati ricorrenti articoli: l’ultimo, apparso giorni fa sul sito del quotidiano La Repubblica, citava una ricerca del Centro Europeo dell’Educazione. Secondo la ricerca, l’otto per cento dei laureati italiani non sarebbe praticamente in grado di scrivere un testo; uno su cinque non saprebbe andare oltre il livello minimo di comprensione linguistica, trovandosi in difficoltà a capire espressioni molto banali.
Nel servizio de La Repubblica si riportavano le testimonianze di professori universitari a proposito di studenti sempre più vicini all’analfabetismo. Interpellato, il linguista Tullio De Mauro sosteneva che, oltre alle ovvie colpe del sistema scolastico, “il disprezzo per la lingua italiana risiede anche in certi romanzi di nuovi autori, pieni di parolacce e di inutili scorciatoie”. Gian Luigi Beccaria se la prendeva con il solito predominio dell’inglese. Lo stesso articolo accennava, inevitabilmente, alla disperata battaglia per l’uso del congiuntivo.
Gli allarmi di questo tipo, abbastanza ciclici da costituire ormai quasi un genere giornalistico a sé, acuiscono la sensazione di vivere in una crisi che è anzitutto crisi linguistica. Una crisi in effetti straziante e in atto da tempo. Senza prendersela con gli studenti, basterebbe ascoltare tanta nostra politica ovvero tanta televisione: la lingua italiana dopo Silvio Berlusconi resterà una lingua molto povera quanto a logica e dignità delle parole. Come sempre, però, il morbo berlusconiano-televisivo può essersi limitato a estremizzare un degrado esistente in ogni caso.
Di fronte a questo degrado, le spiegazioni degli esperti suonano parziali e talvolta, si ha l’impressione, di retroguardia. Per restare alle dichiarazioni citate, sarà vero che alcuni romanzi, spesso in testa alle classifiche, sono scritti in un idioma sciatto e di derivazione televisiva. È un brutto segno quando gli scrittori lavorano contro la propria lingua. Bisognerebbe però ricordare l’esistenza di altri scrittori, non pochi, spesso giovani e purtroppo di minore successo, che non rinunciano affatto a un personale corpo a corpo con la ricchezza della lingua italiana: se i luminari della lingua italiana iniziassero a occuparsi anche di questi, potrebbe nascerne un confronto costruttivo.
Al di là dei singoli articoli, ciò che colpisce quando si parla di queste problematiche è il diffuso tono da apocalisse culturale. Pare che la cultura italiana assista con spirito nobile e indignato a una calata di barbari. I quali hanno dimestichezza con nuove inquietanti armi, quelle della tecnologia comunicativa, e usano un idioma appunto barbaro. Ora, il tracollo culturale in corso sarà vero, ma quando le vecchie generazioni se la prendono compatte con le nuove c’è sempre da conservare una dose di sospetto. La tendenza generazionale a vedere “dopo di sé il diluvio” rischia infatti di rivelarsi, a volte, venata di qualche narcisismo, nonché di qualche coscienza sporca riguardo all’eredità che si sta lasciando.
Si potrebbe ricordare, ad esempio, che la povertà linguistica degli studenti è speculare al ridicolo elitarismo linguistico di tanti loro docenti. Cosa dire di numerosi baroni delle scienze umane, sociologi, filosofi, letterati, psicologi, del tutto incapaci di esprimersi in un italiano onesto e scorrevole? Da una parte ci sono studenti che non conoscono l’italiano, dall’altra intellettuali convinti di conoscerlo così bene da trascurare ogni minima necessità di comprensione. Non sarà anche questa una paradossale forma di analfabetismo? Non siamo di fronte a un’incapacità di comunicare? Non si tratta solo, e sarebbe già discutibile, della volontà di mantenere un gergo per iniziati. Si tratta di palese cialtroneria linguistica. Chi scrive non scorderà mai l’esperienza da incubo di lavorare all’editing del testo di un noto docente, che dietro l’uso di un fumoso gergo filosofico rivelava un’esasperante incapacità, o forse disinteresse, a distendere il filo dei suoi discorsi.
In fondo, la lingua somiglia proprio a un filo, spesso fragile, teso tra le persone e all’interno di una cultura. Puntare il dito contro i giovani non serve granché. Sarebbe forse utile ragionare sul fatto che il filo è stato spezzato da molte parti, con molte colpe. I ragazzi sono oggi coloro cui tocca l’incombenza, faticosa e alquanto dolorosa, visto il disastro che hanno ereditato, di riannodare un filo che non sarà, non può più essere, quello delle generazioni precedenti.
In secondo luogo, tutto sommato, si ha l’impressione di poter fare a meno di certo perbenismo linguistico. Un italiano elegante e terso rimane il nostro ideale, inutile dirlo: le parole a sproposito, le frasi fatte, la grammatica goffamente ignorata restano uno strazio. Ma non sottovalutiamo la potenziale bellezza di un italiano magari rotto, sincopato, contaminato. La lingua non è un fenomeno vivo che accade? Non a caso, l’italiano più bello e commovente parlato oggi in Italia rischia di essere quello degli immigrati, talvolta incerto ma fantasioso, necessario, vissuto. Una lingua viva, come dimostra l’inglese, non è mai quella rigida bensì quella plastica, e se anche questa plasticità sembra diventare impoverimento la soluzione non può essere un accademico, sterile richiamo all’ordine.
Spesso, come esempi di scrittura luminosa si citano autori quali Calvino o Pavese. A ben guardare, si trattava di scrittori ben radicati nell’esperienza italiana ma al tempo stesso cosmopoliti, che non avevano paura di confrontarsi con l’inglese e di assorbirne, perché no, il gusto per lo stile trasparente. I nuovi Calvino e i nuovi Pavese, se ci saranno, potrebbero venire da una simile capacità di cosmopolitismo. Un cosmopolitismo che oggi non è solo la capacità di confrontarsi con altre lingue e culture ma anche con i diversi piani dell’esperienza, con gli intrecci tra conoscenza diretta e virtuale, tra umano e tecnologico, tra tradizione e nuova apertura. Il filo della lingua è anche quello che ci lega all’esperienza, e l’esperienza si sfaccetta di continuo. Se vogliamo che i ragazzi conservino memoria della nostra polverosa cultura, dobbiamo fare qualcosa di più che suggerire loro l’uso dei congiuntivi: dobbiamo ragionare sul modo di trasmettere questa cultura come esperienza vera, viva, capace di accadere ancora, proprio adesso e proprio qui. E bisogna ovviamente essere in grado di comprendere e accettare la loro, di esperienza. Se volete che i ragazzi credano in voi, dovete prima credere in loro.
[Nota successiva: dopo aver scritto questo pezzo, il 18 dicembre ho visto un diverso articolo di Paolo Di Stefano sul Corriere, che ho trovato più condivisibile, e che metteva il problema in una più chiara dimensione di investimento scolastico.]
Nel servizio de La Repubblica si riportavano le testimonianze di professori universitari a proposito di studenti sempre più vicini all’analfabetismo. Interpellato, il linguista Tullio De Mauro sosteneva che, oltre alle ovvie colpe del sistema scolastico, “il disprezzo per la lingua italiana risiede anche in certi romanzi di nuovi autori, pieni di parolacce e di inutili scorciatoie”. Gian Luigi Beccaria se la prendeva con il solito predominio dell’inglese. Lo stesso articolo accennava, inevitabilmente, alla disperata battaglia per l’uso del congiuntivo.
Gli allarmi di questo tipo, abbastanza ciclici da costituire ormai quasi un genere giornalistico a sé, acuiscono la sensazione di vivere in una crisi che è anzitutto crisi linguistica. Una crisi in effetti straziante e in atto da tempo. Senza prendersela con gli studenti, basterebbe ascoltare tanta nostra politica ovvero tanta televisione: la lingua italiana dopo Silvio Berlusconi resterà una lingua molto povera quanto a logica e dignità delle parole. Come sempre, però, il morbo berlusconiano-televisivo può essersi limitato a estremizzare un degrado esistente in ogni caso.
Di fronte a questo degrado, le spiegazioni degli esperti suonano parziali e talvolta, si ha l’impressione, di retroguardia. Per restare alle dichiarazioni citate, sarà vero che alcuni romanzi, spesso in testa alle classifiche, sono scritti in un idioma sciatto e di derivazione televisiva. È un brutto segno quando gli scrittori lavorano contro la propria lingua. Bisognerebbe però ricordare l’esistenza di altri scrittori, non pochi, spesso giovani e purtroppo di minore successo, che non rinunciano affatto a un personale corpo a corpo con la ricchezza della lingua italiana: se i luminari della lingua italiana iniziassero a occuparsi anche di questi, potrebbe nascerne un confronto costruttivo.
Al di là dei singoli articoli, ciò che colpisce quando si parla di queste problematiche è il diffuso tono da apocalisse culturale. Pare che la cultura italiana assista con spirito nobile e indignato a una calata di barbari. I quali hanno dimestichezza con nuove inquietanti armi, quelle della tecnologia comunicativa, e usano un idioma appunto barbaro. Ora, il tracollo culturale in corso sarà vero, ma quando le vecchie generazioni se la prendono compatte con le nuove c’è sempre da conservare una dose di sospetto. La tendenza generazionale a vedere “dopo di sé il diluvio” rischia infatti di rivelarsi, a volte, venata di qualche narcisismo, nonché di qualche coscienza sporca riguardo all’eredità che si sta lasciando.
Si potrebbe ricordare, ad esempio, che la povertà linguistica degli studenti è speculare al ridicolo elitarismo linguistico di tanti loro docenti. Cosa dire di numerosi baroni delle scienze umane, sociologi, filosofi, letterati, psicologi, del tutto incapaci di esprimersi in un italiano onesto e scorrevole? Da una parte ci sono studenti che non conoscono l’italiano, dall’altra intellettuali convinti di conoscerlo così bene da trascurare ogni minima necessità di comprensione. Non sarà anche questa una paradossale forma di analfabetismo? Non siamo di fronte a un’incapacità di comunicare? Non si tratta solo, e sarebbe già discutibile, della volontà di mantenere un gergo per iniziati. Si tratta di palese cialtroneria linguistica. Chi scrive non scorderà mai l’esperienza da incubo di lavorare all’editing del testo di un noto docente, che dietro l’uso di un fumoso gergo filosofico rivelava un’esasperante incapacità, o forse disinteresse, a distendere il filo dei suoi discorsi.
In fondo, la lingua somiglia proprio a un filo, spesso fragile, teso tra le persone e all’interno di una cultura. Puntare il dito contro i giovani non serve granché. Sarebbe forse utile ragionare sul fatto che il filo è stato spezzato da molte parti, con molte colpe. I ragazzi sono oggi coloro cui tocca l’incombenza, faticosa e alquanto dolorosa, visto il disastro che hanno ereditato, di riannodare un filo che non sarà, non può più essere, quello delle generazioni precedenti.
In secondo luogo, tutto sommato, si ha l’impressione di poter fare a meno di certo perbenismo linguistico. Un italiano elegante e terso rimane il nostro ideale, inutile dirlo: le parole a sproposito, le frasi fatte, la grammatica goffamente ignorata restano uno strazio. Ma non sottovalutiamo la potenziale bellezza di un italiano magari rotto, sincopato, contaminato. La lingua non è un fenomeno vivo che accade? Non a caso, l’italiano più bello e commovente parlato oggi in Italia rischia di essere quello degli immigrati, talvolta incerto ma fantasioso, necessario, vissuto. Una lingua viva, come dimostra l’inglese, non è mai quella rigida bensì quella plastica, e se anche questa plasticità sembra diventare impoverimento la soluzione non può essere un accademico, sterile richiamo all’ordine.
Spesso, come esempi di scrittura luminosa si citano autori quali Calvino o Pavese. A ben guardare, si trattava di scrittori ben radicati nell’esperienza italiana ma al tempo stesso cosmopoliti, che non avevano paura di confrontarsi con l’inglese e di assorbirne, perché no, il gusto per lo stile trasparente. I nuovi Calvino e i nuovi Pavese, se ci saranno, potrebbero venire da una simile capacità di cosmopolitismo. Un cosmopolitismo che oggi non è solo la capacità di confrontarsi con altre lingue e culture ma anche con i diversi piani dell’esperienza, con gli intrecci tra conoscenza diretta e virtuale, tra umano e tecnologico, tra tradizione e nuova apertura. Il filo della lingua è anche quello che ci lega all’esperienza, e l’esperienza si sfaccetta di continuo. Se vogliamo che i ragazzi conservino memoria della nostra polverosa cultura, dobbiamo fare qualcosa di più che suggerire loro l’uso dei congiuntivi: dobbiamo ragionare sul modo di trasmettere questa cultura come esperienza vera, viva, capace di accadere ancora, proprio adesso e proprio qui. E bisogna ovviamente essere in grado di comprendere e accettare la loro, di esperienza. Se volete che i ragazzi credano in voi, dovete prima credere in loro.
[Nota successiva: dopo aver scritto questo pezzo, il 18 dicembre ho visto un diverso articolo di Paolo Di Stefano sul Corriere, che ho trovato più condivisibile, e che metteva il problema in una più chiara dimensione di investimento scolastico.]
«Il Manifesto» del 20 dicembre 2009
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