L' autore friulano è morto il giorno di Natale. Si aggiudicò lo Strega e due volte il Campiello
di Dario Fertilio
Narratore contro le ideologie, sempre dalla parte dei vinti
Morire il giorno di Natale, in un romanzo di Carlo Sgorlon, è un segno certo del destino, il sigillo di un ciclo che si compie. E ora la vita, imitando la letteratura, gli riserva proprio questo: se ne va il più grande scrittore friulano del Novecento, convinto - per sua stessa confessione autobiografica - «di essere stato coerente fino in fondo con se stesso e con il proprio destino». Un mese e mezzo di sofferenze, in un ospedale di Udine, preceduto da anni di dolori provocati da una rara malattia alle ossa, avevano fatto di Sgorlon un profeta singolare, eremitico ma tentato dal mondo, esule in patria eppure ambiziosamente sulla scena letteraria e premiato proprio quando meno se lo aspettava. Ancora: conservatore dichiarato in un mondo di scrittori attratti dal conformismo para-progressista, spiritualista quanto basta per farsi bollare come un dinosauro dal darwinismo politicamente corretto. Con simili premesse, Carlo Sgorlon avrebbe dovuto aspettarsi un' esistenza ai margini e qualche rara pubblicazione in riviste regionali: invece, il capriccioso dio della letteratura gli ha riservato una sorte diversa. Nel 1973, per Il trono di legno (forse il suo capolavoro assoluto) non solo il Premio Campiello ma la nascita di una generazione «sgorloniana», zoccolo duro di lettori attratti dal mitico e dal fantastico che non lo avrebbe più abbandonato, decretando in seguito il successo anche dei suoi romanzi meno ispirati o minori. Nel 1983, di nuovo il Campiello con La conchiglia di Anataj, in cui la vena storica sempre presente trova maggiore spazio, stabilendo una continuità ideale fra il Nordest friulano e le vicende della lontanissima Siberia. Due anni dopo, lo Strega con L'armata dei fiumi perduti, ancora più visibilmente permeabile ai drammi della storia, in cui si mescolano le vicende belliche di due popoli perseguitati, i cosacchi e gli stessi friulani. E già così l'intero universo letterario di Carlo Sgorlon si può considerare completo: un mondo in cui la Storia è matrigna e omicida, spietata avversaria degli affetti e delle tradizioni; la donna è mistero e rinascita, ispiratrice e sotterranea confidente di forze magiche; la natura rivela appena sotto la sua scorza un pullulare di spiriti e fantasmi, macaròt di bosc, orcui, striis e fate d'acqua; il tempo si espande o contrae in relazione agli stati d' animo; l' ideologia, di qualsiasi colore, è sterile e annientatrice, quasi un esercizio estremo di quel razionalismo illuministico da lui guardato con sospetto (fino a considerarne esponenti gli scrittori della triade intoccabile dalla critica: Calvino, Gadda e Sciascia). Molti altri romanzi seguiranno, spesso simili nella trama, quasi variazioni sul tema di fondo: c'è sempre un paese friulano fuori dal tempo, abbandonato e dimenticato da tutti, che un giorno riceve la visita di un forestiero; quest'uomo però, in un lontano passato, forse per discendenza familiare, ha conosciuto quei luoghi e, dotato di incontenibile impeto vitale, vi impianta un'attività economica (artigiana, industriale, mineraria, agricola) capace di far rifluire la vita fra le mura diroccate. Solo dopo, quasi seguendo un filone parallelo, vengono i romanzi a sfondo politico, con La malga di Sìr fra i più riusciti, travestimento appena accennato della strage commessa dai partigiani comunisti a Porzùs (e da cui il regista Renzo Martinelli ha tratto un film discusso e famoso). Infine, il sorprendente saggio autobiografico La penna d'oro, in cui Sgorlon denuncia l'ostracismo cui la cultura ufficiale lo ha condannato e dichiara ai quattro venti - suscitando una violenta polemica fra i suoi sostenitori e detrattori - odi e amori politici e letterari (fra questi ultimi, il conterraneo Pasolini e García Márquez. Oltre a Buzzati, che forse oggi si dovrebbe riconoscere come il suo autentico fratello elettivo). Esiste poi uno Sgorlon meno pubblico, più intimo, fortemente attratto da una religiosità priva di chiesa: trova singolare espressione nella favola inedita di due anni fa, Quando Arzaqì arrivò a Betlem, in cui il protagonista si rende conto solo all'ultima scena, nel contemplare il Bambino nella mangiatoia, di essere arrivato «al culmine del suo viaggio e del suo stesso destino». E uno Sgorlon molto segreto, più alchimista che scienziato, autore di brevi scritti tesi a dimostrare il declino del materialismo e addirittura «l'inesistenza della materia», sempre più impossibile da afferrare secondo i parametri della fisica: «L'atomo e il nucleo sono una scatola cinese, una matrioska che non finisce mai». Il romanzo che uscirà postumo in lingua friulana, Ombris tal infinit («Ombre dall'infinito») segna la chiusura simbolica del cerchio, ricollegandosi agli esordi di Prime di sere. Ma è forse a una frase «alchemica» che è affidata la sua eredità più profonda, il tesoro: «Ciò che noi vediamo, tastiamo, fiutiamo, udiamo, gustiamo, è un'apparenza; è il famoso velo di Maja, che rende il mondo visibile per uomini e animali, perché gli dei provano per gli uomini una sorta di pietà».
«Corriere della Sera» del 27 dicembre 2009
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