di Carlo Carena
Quando, come in questi giorni, si abbatte una tragedia su una grande parte dell’umanità, il pensiero corre a quel vero genere letterario, con straordinari capolavori di fantasia e di etica, che è stato dal Medioevo alla Controriforma e oltre il «disprezzo del mondo», a ciò che vi si dice sulla «miseria della condizione umana». Lotario di Segni non era ancora Innocenzo III quando nel suo De miseria humanae conditionis, sulla scia di Pier Damiani e di tanti altri Padri e risalendo assai più addietro a Giobbe e a Geremia, accumulava quadri spaventosi, in cui nulla si salva di quell’immondo tristissimo carnaio che sono l’uomo e la materia.
E appena passata l’aurora promettente dell’Umanesimo, Erasmo da Rotterdam scrivendo anch’egli un suo De contemptu mundi torna ad osservare le calamità che si abbattono sul pianeta con ritmi crescenti («un tempo una alla volta su ogni generazione, ora tutte assieme su una sola»), le guerre, le pestilenze, le carestie «per cui una parte dell’umanità si nutre d’erba come la bestie e un’altra muore di fame»: e se per fortuna tua non ne sei raggiunto tu stesso, «ti immiseriscono l’ascolto dei lamenti e la visione delle miserie dei miseri». Quasi le stesse parole che Paul Valéry spenderà cinque secoli dopo, all’indomani del primo conflitto mondiale, in una sua lettera sulla crisi dello spirito per constatare che tutta la terra è fatta di cenere e sospesa su un abisso imperscrutabile.
Di fronte a tutto ciò, è persino inutile porsi delle domande. Voltaire nel pieno dell’altra età del trionfo dell’uomo assistette allibito al terremoto di Lisbona del 1755, 60.000 morti, ne scrisse in versi ma si arrestò davanti ad ogni possibile discorso: farne, disse, alle vittime di queste catastrofi, è impossibile e crudele come o più della loro stessa sventura. Questo mondo, la terra intera, è l’impero della distruzione, di cui tutti gli animali sono vittime continue, e più di tutti l’essere umano. Punto e basta.
Ma ancora assai più triste di questa pensosa e sofferente desolazione è quando ci si accanisce intellettualmente sulla desolazione del mondo senza soffrirne o rimanendo indifferenti; quando non se ne partecipa ma se ne giudica standone fuori o credendo di esserne fuori. Ci sono scrittori che non hanno riconosciuto nulla al tempo, al creato e ai loro simili. Quando si leggono, poniamo, i cahiers di Montherlant, anni fra il 1958 e il 1964 – ma è solo un esempio di un’ampia crisi, si potrebbe accodarne molti altri – si rimane presi non solo dalla straordinaria intelligenza e magnificenza della loro prosa, ma da quell’altra tristezza che è insita nell’alterigia dell’autore. Vi si legge: «Chi oggi riflette per conto suo – voglio dire: con una riflessione non 'impegnata' – e comunica la sua riflessione a voce o per iscritto, non si rivolge a nessuno. Si rivolge a degli ippopotami» su cui i discorsi intelligenti scivolano come acqua fresca. L’uomo, ai suoi occhi, è un essere che continua a vivere per tutta la sua vita nel falso e nell’assurdo, anch’esso assurdo e falso. Non val la pena di interessarsi di costoro. Si sente bene a quale dei clan da lui delineati – «Si è divisi in due clan: più si conosce più si ama, o più si conosce meno si ama» – lo scrittore stesso appartiene.
Colpisce in certi intellettuali il misconoscimento dell’uguaglianza e del valore universale (e insieme della nullità, avvertirebbe l’Ecclesiaste) della persona umana. Con la differenza se mai che il re nudo è ridicolo, mentre il bambino nudo di Haiti è pietoso. È difficile per molti riconoscere, come invece riconosce e ammette Jules Renard, che «è quell’uomo stesso che sono io a rendermi misantropo».
L’orrore della natura fisica e anche umana è lecito, può essere serio in certi filosofi e in certi santi, ma a patto di non esentarne se stessi.
E appena passata l’aurora promettente dell’Umanesimo, Erasmo da Rotterdam scrivendo anch’egli un suo De contemptu mundi torna ad osservare le calamità che si abbattono sul pianeta con ritmi crescenti («un tempo una alla volta su ogni generazione, ora tutte assieme su una sola»), le guerre, le pestilenze, le carestie «per cui una parte dell’umanità si nutre d’erba come la bestie e un’altra muore di fame»: e se per fortuna tua non ne sei raggiunto tu stesso, «ti immiseriscono l’ascolto dei lamenti e la visione delle miserie dei miseri». Quasi le stesse parole che Paul Valéry spenderà cinque secoli dopo, all’indomani del primo conflitto mondiale, in una sua lettera sulla crisi dello spirito per constatare che tutta la terra è fatta di cenere e sospesa su un abisso imperscrutabile.
Di fronte a tutto ciò, è persino inutile porsi delle domande. Voltaire nel pieno dell’altra età del trionfo dell’uomo assistette allibito al terremoto di Lisbona del 1755, 60.000 morti, ne scrisse in versi ma si arrestò davanti ad ogni possibile discorso: farne, disse, alle vittime di queste catastrofi, è impossibile e crudele come o più della loro stessa sventura. Questo mondo, la terra intera, è l’impero della distruzione, di cui tutti gli animali sono vittime continue, e più di tutti l’essere umano. Punto e basta.
Ma ancora assai più triste di questa pensosa e sofferente desolazione è quando ci si accanisce intellettualmente sulla desolazione del mondo senza soffrirne o rimanendo indifferenti; quando non se ne partecipa ma se ne giudica standone fuori o credendo di esserne fuori. Ci sono scrittori che non hanno riconosciuto nulla al tempo, al creato e ai loro simili. Quando si leggono, poniamo, i cahiers di Montherlant, anni fra il 1958 e il 1964 – ma è solo un esempio di un’ampia crisi, si potrebbe accodarne molti altri – si rimane presi non solo dalla straordinaria intelligenza e magnificenza della loro prosa, ma da quell’altra tristezza che è insita nell’alterigia dell’autore. Vi si legge: «Chi oggi riflette per conto suo – voglio dire: con una riflessione non 'impegnata' – e comunica la sua riflessione a voce o per iscritto, non si rivolge a nessuno. Si rivolge a degli ippopotami» su cui i discorsi intelligenti scivolano come acqua fresca. L’uomo, ai suoi occhi, è un essere che continua a vivere per tutta la sua vita nel falso e nell’assurdo, anch’esso assurdo e falso. Non val la pena di interessarsi di costoro. Si sente bene a quale dei clan da lui delineati – «Si è divisi in due clan: più si conosce più si ama, o più si conosce meno si ama» – lo scrittore stesso appartiene.
Colpisce in certi intellettuali il misconoscimento dell’uguaglianza e del valore universale (e insieme della nullità, avvertirebbe l’Ecclesiaste) della persona umana. Con la differenza se mai che il re nudo è ridicolo, mentre il bambino nudo di Haiti è pietoso. È difficile per molti riconoscere, come invece riconosce e ammette Jules Renard, che «è quell’uomo stesso che sono io a rendermi misantropo».
L’orrore della natura fisica e anche umana è lecito, può essere serio in certi filosofi e in certi santi, ma a patto di non esentarne se stessi.
«Avvenire» del 17 gennaio 2010
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