Isabelle fu l’infermiera e la vestale del culto del grande poeta Rimbaud durante i mesi della terribile agonia. Nelle sue memorie (inedite in Italia), il tentativo di convertire il fratello e di «ripulirne» le opere
di Stenio Solinas
Le «mani da assassino» erano simboleggiate dagli enormi pollici che rivaleggiavano con indice e medio in grandezza e lunghezza. Isabelle e Arthur Rimbaud le avevano ereditate dal padre, il militare inquieto che tornava a ogni licenza per ingravidare la moglie e poi ripartire e che a un certo punto non tornò più. Fra i due non era l’unico tratto in comune: l’ovale del viso e il blu degli occhi erano gli stessi e se si prende la celebre foto di Carjat di Arthur ragazzo e la si confronta con quelle di Isabelle ormai donna sposata, sembra di vedere madre e figlio.
Eppure, non sarebbero potuti essere più diversi: il ribelle e la sottomessa, il viaggiatore errante e la contadina attaccata alla sua terra, il libertino di città e la vergine di campagna, l’iconoclasta e la fervida credente. Che il primo fosse stato un poeta, la seconda l’aveva sempre saputo, pur non avendolo mai letto. Fra loro c’erano sei anni di differenza e quando il precocissimo Arthur aveva cominciato a scrivere versi, Isabelle era troppo piccola per capire, per capirli. Poi, a vent’anni, lui di colpo aveva smesso e questo per lei era stato sufficiente. Alla madre, che aveva trasformato l’abbandono maritale in vedovanza - «la vedova Rimbaud» si faceva chiamare - e che più d’ogni altra cosa venerava la rispettabilità borghese, quel figlio balzano e scapestrato non era mai andato giù. Isabelle era una sorella affezionata, ma era soprattutto una figlia obbediente.
Lesse le Illuminazioni «alcune settimane dopo la sua morte: per la prima volta ebbi un moto di sorpresa e di commozione. Pur senza averle mai lette, conoscevo le sue opere. Io le avevo concepite. Ma io, misera, non avrei mai potuto esprimerle con le sue magiche parole».
È una lettera del 1896, Rimbaud è ormai morto da cinque anni e la «vergine di campagna» sta per sposarsi: ha la stessa età di Arthur quando fu seppellito e come per un sinistro contrappasso la fine di una vita ha fatto da levatrice alla nascita di un’altra. È cominciato tutto proprio in quella primavera del 1891 quando, dopo dodici anni d’assenza, il fratello è tornato dall’Africa e sbarcato a Marsiglia: qui gli hanno diagnosticato un tumore a una coscia e amputato la gamba. Pensa a una convalescenza breve, in famiglia, per poi ripartire. Si è già fatto costruire un arto artificiale: si illude, non camminerà più.
All’ospedale è andato a prenderlo la madre e l’ha riportato a casa, a Roche, un paesino delle Ardenne. «Mère Rimb», come la chiama il figlio, è una decisionista, ma Arthur ha bisogno di un’infermiera, non di un comandante o di una sorvegliante... Sarà Isabelle a farsene carico. Fra Roche e poi di nuovo Marsiglia, dall’estate all’autunno del 1891, diverrà il «doppio» di Arthur: la vittima e insieme la consolatrice, testimone delle sue sofferenze, dei suoi deliri. Per la prima volta nella sua vita non dipende da nessuno, non deve rendere conto a nessuno: ha un ruolo e nessuno glielo porterà più via.
Torniamo a quella lettera del 1896. Il destinatario si chiama Pierre Dufour, ma si fa chiamare Paterne Berrichon: ha velleità pittoriche, è un mediocre scrittore, ma sa chi è Verlaine, sa chi è stato Rimbaud, vorrebbe scriverne la biografia. Diverrà il marito di Isabelle che intanto da sorella del «povero Arthur» si è trasformata in vestale del «grande poeta», testimone carnale del suo culto: solo lei lo conosce veramente, solo lei è autorizzata a tramandarne l’immagine. È quella di un santo morto giovane e che ha molto sofferto, puro e delicato, buon figlio, buon cattolico... «Il mio angelo, il mio preferito, il mio amato, la mia anima!»...
Insieme con il marito ne purgherà i testi, polemizzerà contro chi, secondo lei, ne offende la memoria, lo trasformerà persino in abile disegnatore di paesaggi africani ricalcandoli dalla riviste geografiche del tempo (in Les dessins d’Arthur Rimbaud, Flammarion, pagg. 158, euro 45, Jean-Jacques Lefrère ha ora raccolto le prove documentali di questi falsi).
Qualche anno fa lo scrittore francese Philippe Besson immaginò in Les jours fragiles (Julliard) il diario segreto tenuto da Isabelle nei mesi terribili dell’agonia di Arthur, un’opera di fantasia che però rendeva bene l’insieme di strazio, stupore, orrore e amore di chi non aveva mai vissuto nel ritrovarsi ad ascoltare chi aveva vissuto troppo eppure troppo poco e troppo in fretta. «Sorella morte» la chiama Antonio Castronuovo nella bella post-fazione a L’ultimo viaggio di mio fratello Arthur (Edizioni Via del Vento, pagg. 35, euro 4) che raccoglie, inediti per l’Italia, i ricordi reali da lei scritti in quei mesi e negli anni immediatamente successivi. Ciò che ne emerge è la capacità che hanno certi malati di auto-ingannarsi, un che di eroico nella loro sopportazione del dolore, il non darsi comunque per vinti. Nel delirio, Rimbaud ha un’idea fissa: ritornare, ripartire. Scrive Isabelle alla madre: «Mescola tutto... e con arte. Siamo nell’Harar, partiamo sempre per Aden... Cammina molto facilmente con la nuova gamba articolata, facciamo qualche giorno a passeggio su bei muli riccamente bardati».
Un’agonia, la sua, che stringe il cuore: «Non può sopportare una piega sotto di lui, la testa non è mai messa bene; il moncherino è troppo alto o troppo basso; bisogna mettergli il braccio destro completamente inerte su strati di ovatta, avvolgere il sinistro, che si paralizza sempre di più, con flanelle». Da buona cattolica, Isabelle pensa alla sua anima, lo vuole convertito, chiama il prete. Dio esisterà pure, ma com’è meschino... Un vecchio amico dei tempi africani, Dimitri Righaz, sa esprimergli in una frase ciò che sacerdoti e familiari non saranno capaci di fare. «Avrei preferito che avessero tagliato la mia gamba piuttosto che la vostra».
Quando, finalmente, muore, il 10 novembre 1891, il miglior epitaffio glielo scrive l’impiegato dell’ospedale di Marsiglia dove era ricoverato. Alla voce professione annota «commerciante», come indirizzo, «di passaggio». «Ho teso corde da campanile a campanile/ ghirlande da finestre a finestre/ catene d’oro da stella a stella/ E danzo».
Eppure, non sarebbero potuti essere più diversi: il ribelle e la sottomessa, il viaggiatore errante e la contadina attaccata alla sua terra, il libertino di città e la vergine di campagna, l’iconoclasta e la fervida credente. Che il primo fosse stato un poeta, la seconda l’aveva sempre saputo, pur non avendolo mai letto. Fra loro c’erano sei anni di differenza e quando il precocissimo Arthur aveva cominciato a scrivere versi, Isabelle era troppo piccola per capire, per capirli. Poi, a vent’anni, lui di colpo aveva smesso e questo per lei era stato sufficiente. Alla madre, che aveva trasformato l’abbandono maritale in vedovanza - «la vedova Rimbaud» si faceva chiamare - e che più d’ogni altra cosa venerava la rispettabilità borghese, quel figlio balzano e scapestrato non era mai andato giù. Isabelle era una sorella affezionata, ma era soprattutto una figlia obbediente.
Lesse le Illuminazioni «alcune settimane dopo la sua morte: per la prima volta ebbi un moto di sorpresa e di commozione. Pur senza averle mai lette, conoscevo le sue opere. Io le avevo concepite. Ma io, misera, non avrei mai potuto esprimerle con le sue magiche parole».
È una lettera del 1896, Rimbaud è ormai morto da cinque anni e la «vergine di campagna» sta per sposarsi: ha la stessa età di Arthur quando fu seppellito e come per un sinistro contrappasso la fine di una vita ha fatto da levatrice alla nascita di un’altra. È cominciato tutto proprio in quella primavera del 1891 quando, dopo dodici anni d’assenza, il fratello è tornato dall’Africa e sbarcato a Marsiglia: qui gli hanno diagnosticato un tumore a una coscia e amputato la gamba. Pensa a una convalescenza breve, in famiglia, per poi ripartire. Si è già fatto costruire un arto artificiale: si illude, non camminerà più.
All’ospedale è andato a prenderlo la madre e l’ha riportato a casa, a Roche, un paesino delle Ardenne. «Mère Rimb», come la chiama il figlio, è una decisionista, ma Arthur ha bisogno di un’infermiera, non di un comandante o di una sorvegliante... Sarà Isabelle a farsene carico. Fra Roche e poi di nuovo Marsiglia, dall’estate all’autunno del 1891, diverrà il «doppio» di Arthur: la vittima e insieme la consolatrice, testimone delle sue sofferenze, dei suoi deliri. Per la prima volta nella sua vita non dipende da nessuno, non deve rendere conto a nessuno: ha un ruolo e nessuno glielo porterà più via.
Torniamo a quella lettera del 1896. Il destinatario si chiama Pierre Dufour, ma si fa chiamare Paterne Berrichon: ha velleità pittoriche, è un mediocre scrittore, ma sa chi è Verlaine, sa chi è stato Rimbaud, vorrebbe scriverne la biografia. Diverrà il marito di Isabelle che intanto da sorella del «povero Arthur» si è trasformata in vestale del «grande poeta», testimone carnale del suo culto: solo lei lo conosce veramente, solo lei è autorizzata a tramandarne l’immagine. È quella di un santo morto giovane e che ha molto sofferto, puro e delicato, buon figlio, buon cattolico... «Il mio angelo, il mio preferito, il mio amato, la mia anima!»...
Insieme con il marito ne purgherà i testi, polemizzerà contro chi, secondo lei, ne offende la memoria, lo trasformerà persino in abile disegnatore di paesaggi africani ricalcandoli dalla riviste geografiche del tempo (in Les dessins d’Arthur Rimbaud, Flammarion, pagg. 158, euro 45, Jean-Jacques Lefrère ha ora raccolto le prove documentali di questi falsi).
Qualche anno fa lo scrittore francese Philippe Besson immaginò in Les jours fragiles (Julliard) il diario segreto tenuto da Isabelle nei mesi terribili dell’agonia di Arthur, un’opera di fantasia che però rendeva bene l’insieme di strazio, stupore, orrore e amore di chi non aveva mai vissuto nel ritrovarsi ad ascoltare chi aveva vissuto troppo eppure troppo poco e troppo in fretta. «Sorella morte» la chiama Antonio Castronuovo nella bella post-fazione a L’ultimo viaggio di mio fratello Arthur (Edizioni Via del Vento, pagg. 35, euro 4) che raccoglie, inediti per l’Italia, i ricordi reali da lei scritti in quei mesi e negli anni immediatamente successivi. Ciò che ne emerge è la capacità che hanno certi malati di auto-ingannarsi, un che di eroico nella loro sopportazione del dolore, il non darsi comunque per vinti. Nel delirio, Rimbaud ha un’idea fissa: ritornare, ripartire. Scrive Isabelle alla madre: «Mescola tutto... e con arte. Siamo nell’Harar, partiamo sempre per Aden... Cammina molto facilmente con la nuova gamba articolata, facciamo qualche giorno a passeggio su bei muli riccamente bardati».
Un’agonia, la sua, che stringe il cuore: «Non può sopportare una piega sotto di lui, la testa non è mai messa bene; il moncherino è troppo alto o troppo basso; bisogna mettergli il braccio destro completamente inerte su strati di ovatta, avvolgere il sinistro, che si paralizza sempre di più, con flanelle». Da buona cattolica, Isabelle pensa alla sua anima, lo vuole convertito, chiama il prete. Dio esisterà pure, ma com’è meschino... Un vecchio amico dei tempi africani, Dimitri Righaz, sa esprimergli in una frase ciò che sacerdoti e familiari non saranno capaci di fare. «Avrei preferito che avessero tagliato la mia gamba piuttosto che la vostra».
Quando, finalmente, muore, il 10 novembre 1891, il miglior epitaffio glielo scrive l’impiegato dell’ospedale di Marsiglia dove era ricoverato. Alla voce professione annota «commerciante», come indirizzo, «di passaggio». «Ho teso corde da campanile a campanile/ ghirlande da finestre a finestre/ catene d’oro da stella a stella/ E danzo».
«Il Giornale» del 265 gennaio 2010
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