di Giordano Bruno Guerri
Quando si ha bisogno di un avvocato, che si fa? Si chiede in giro, ci si informa su quale è il migliore e il più competente per la causa che ci interessa. Lo stesso facciamo, possibilmente, per medici, architetti e professionisti di tutti i generi e specializzazioni, giù giù fino alla piccola impresa che deve ristrutturare il bagno di casa. È incredibile che niente del genere sia possibile nella scelta degli insegnanti cui affidare il bene più prezioso, ovvero la vita, la formazione civile e l’apprendimento dei nostri figli.
Certo, a una minoranza di benestanti è possibile rivolgersi a scuole private, che godano di buona fama e che dunque – presumibilmente – contino su docenti scelti fra i migliori. Purtroppo sappiamo che spesso, in questo caso, non è neppure vero che «chi più spende meglio spende»: la scuola privata avrà, sì, ottime strutture, aule ben tenute, varietà di servizi e di corsi supplementari. Ma gli insegnanti? C’è il rischio, non infrequente, che trovino collocazione nel settore privato proprio dei docenti che – per insipienza e impreparazione – non riescono a penetrare nelle maglie di per sé larghissime della scuola pubblica.
Alla quale sono favorevole, perché se non altro evita di chiudere il bambino in un piccolo ghetto socioeconomico, diversissimo dalla realtà della vita quotidiana. Ma le statistiche, periodiche e implacabili, sull’impreparazione dei ragazzi al termine di qualsiasi corso di studi – dalle elementari all’università – fanno venire brividi di gelo al pensiero di immettere il proprio figlio in un diplomificio che fornirà un pezzo di carta deprezzato dall’effettiva preparazione, scarsa, dei ragazzi.
Si può girare intorno al problema quanto si vuole (eccessivo affollamento delle scuole, paghe troppo basse per i docenti, programmi ministeriali ed esami inadeguati), però il vero nocciolo della questione è la preparazione degli insegnanti.
È dunque tutt’altro che peregrina, senz’altro da prendere in considerazione, l’idea del leader conservatore inglese David Cameron, per cui – più o meno - potrebbero accedere ai corsi di perfezionamento e all’insegnamento soltanto i laureati con il massimo dei voti. È un esperimento già in corso in Corea del Sud, in Finlandia, in Sudafrica, e che ha dato buoni risultati.
Anzi, eccezionali, se si pensa che la formazione delle nuove generazioni, e quindi dei loro insegnanti, è un problema centrale per qualsiasi società. E che la nostra, da questo punto di vista, non è affatto ben messa. Troppo a lungo il mestiere del docente – da quello delle materne a quello dei licei – è stato visto quasi come un lavoro a mezzo servizio, e perciò appetito soprattutto dal mondo femminile. Con in più un patto, tacito quanto perverso, fra Stato e dipendente/docente: io ti pago poco, però ti chiedo poco.
Il principio va ribaltato: pagare molto e pretendere moltissimo, a partire dai risultati ottenuti all’università. Non solo: gli aspiranti docenti dovranno superare una vera prova psicoattitudinale che verifichi sul serio se sono idonei all’insegnamento, perché essersi laureati a pieni voti non basta.
Soltanto in questo modo insegnare diventerà un mestiere appetibile anche da molti – bravi – che rinunciano a una professione così nobile, e magari amata, per non doversi accontentare di uno stipendio mediocre. E, in più, meglio meno insegnanti, ma eccellenti, piuttosto che una pletora in cui azzeccare quello davvero buono è come vincere alla lotteria.
Naturalmente c’è da immaginare che una simile proposta, da noi, scatenerebbe una mezza rivoluzione. Il «diritto all’insegnamento» è ormai diventato qualcosa di simile al «diritto allo studio». Tanto che, per risolvere il problema, abbiamo moltiplicato il numero di docenti e di materie, per classi e scuole. D’altronde, da qualche parte bisognerà pur cominciare, per una profonda riforma dell’insegnamento più indispensabile di quella della scuola. Dato che nessuna legge può essere retroattiva, gli insegnanti attuali rimarrebbero fino all’età della pensione, mentre per quelli di nuovo arruolamento varrebbero regole rigide simile all’ipotesi inglese. Ci vorrà qualche decennio, per migliorare la qualità della categoria, ma si tratta di una sfida che è indispensabile accettare.
Certo, a una minoranza di benestanti è possibile rivolgersi a scuole private, che godano di buona fama e che dunque – presumibilmente – contino su docenti scelti fra i migliori. Purtroppo sappiamo che spesso, in questo caso, non è neppure vero che «chi più spende meglio spende»: la scuola privata avrà, sì, ottime strutture, aule ben tenute, varietà di servizi e di corsi supplementari. Ma gli insegnanti? C’è il rischio, non infrequente, che trovino collocazione nel settore privato proprio dei docenti che – per insipienza e impreparazione – non riescono a penetrare nelle maglie di per sé larghissime della scuola pubblica.
Alla quale sono favorevole, perché se non altro evita di chiudere il bambino in un piccolo ghetto socioeconomico, diversissimo dalla realtà della vita quotidiana. Ma le statistiche, periodiche e implacabili, sull’impreparazione dei ragazzi al termine di qualsiasi corso di studi – dalle elementari all’università – fanno venire brividi di gelo al pensiero di immettere il proprio figlio in un diplomificio che fornirà un pezzo di carta deprezzato dall’effettiva preparazione, scarsa, dei ragazzi.
Si può girare intorno al problema quanto si vuole (eccessivo affollamento delle scuole, paghe troppo basse per i docenti, programmi ministeriali ed esami inadeguati), però il vero nocciolo della questione è la preparazione degli insegnanti.
È dunque tutt’altro che peregrina, senz’altro da prendere in considerazione, l’idea del leader conservatore inglese David Cameron, per cui – più o meno - potrebbero accedere ai corsi di perfezionamento e all’insegnamento soltanto i laureati con il massimo dei voti. È un esperimento già in corso in Corea del Sud, in Finlandia, in Sudafrica, e che ha dato buoni risultati.
Anzi, eccezionali, se si pensa che la formazione delle nuove generazioni, e quindi dei loro insegnanti, è un problema centrale per qualsiasi società. E che la nostra, da questo punto di vista, non è affatto ben messa. Troppo a lungo il mestiere del docente – da quello delle materne a quello dei licei – è stato visto quasi come un lavoro a mezzo servizio, e perciò appetito soprattutto dal mondo femminile. Con in più un patto, tacito quanto perverso, fra Stato e dipendente/docente: io ti pago poco, però ti chiedo poco.
Il principio va ribaltato: pagare molto e pretendere moltissimo, a partire dai risultati ottenuti all’università. Non solo: gli aspiranti docenti dovranno superare una vera prova psicoattitudinale che verifichi sul serio se sono idonei all’insegnamento, perché essersi laureati a pieni voti non basta.
Soltanto in questo modo insegnare diventerà un mestiere appetibile anche da molti – bravi – che rinunciano a una professione così nobile, e magari amata, per non doversi accontentare di uno stipendio mediocre. E, in più, meglio meno insegnanti, ma eccellenti, piuttosto che una pletora in cui azzeccare quello davvero buono è come vincere alla lotteria.
Naturalmente c’è da immaginare che una simile proposta, da noi, scatenerebbe una mezza rivoluzione. Il «diritto all’insegnamento» è ormai diventato qualcosa di simile al «diritto allo studio». Tanto che, per risolvere il problema, abbiamo moltiplicato il numero di docenti e di materie, per classi e scuole. D’altronde, da qualche parte bisognerà pur cominciare, per una profonda riforma dell’insegnamento più indispensabile di quella della scuola. Dato che nessuna legge può essere retroattiva, gli insegnanti attuali rimarrebbero fino all’età della pensione, mentre per quelli di nuovo arruolamento varrebbero regole rigide simile all’ipotesi inglese. Ci vorrà qualche decennio, per migliorare la qualità della categoria, ma si tratta di una sfida che è indispensabile accettare.
«Il Giornale» del 19 gennaio 2010
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