Dagli scritti giovanili antisemiti agli ultimi insulti a Bettino: la parabola di un cattivo maestro rancoroso
di Paolo Granzotto
«La via di un bandito» - titolo dell’intervista rilasciata da Giorgio Bocca a Gianni Barbacetto del Fatto - sarebbe quella che il sindaco di Milano, Letizia Moratti, intenderebbe dedicare a Bettino Craxi. Via nella quale Bocca non abiterebbe mai, perché Craxi, appunto, «faceva politica come un bandito». E «ignorava le leggi e faceva i comodi suoi». E «se qualcuno non gli andava a genio, chiedeva che fosse licenziato». Ha il dente avvelenato, Giorgio Bocca. Sembra vedergli pulsare le vene di sdegno civile, anche se poi a un sommario esame risulta essere solo rancore (si ricorda ancora, passati svariati decenni, d’un gesto di lesa maestà perpetrato ai suoi danni nel corso di un’intervista al «bandito» per Canale5: «Lui era ripreso sempre di faccia, io sempre di nuca». Ma lui non era Craxi. Gli sarebbe piaciuto esserlo, però era solo un giornalista, l’interrogante. La spalla, diciamo pure. Quindi, nuca). Suggerisce una nota massima di avere l’accortezza di tenersi qualche nemico per la vecchiaia. Per andare sul sicuro, Giorgio Bocca di nemici contro cui scagliarsi a testa bassa se ne è cercati da quando aveva i calzoni corti. Avendo passato e ripassato tutti gli «ismi» possibili e immaginabili, cambiato e ricambiato più gabbane che neanche Fregoli, presi un’infinità di tori per le corna salvo accorgersi che erano vitelli ed essendo, Bocca, di asprigno carattere montanaro, portato alle violente infatuazioni, alle ubriacature, nell’individuare un nemico e metterlo nel collimatore della sua abbaiante «passione civile», ci ha sempre messo niente.
«Un giornalista dotato di quel carisma ineguagliabile - si legge in una biografia - di quella dirittura morale inscalfibile» che lo fa, in tutto e per tutto, Venerato Maestro. Dirittura morale inscalfibile. Bocca è quello che firmò il «Manifesto della razza», quello che scrisse, nero su bianco: «A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere, in un tempo non lontano, essere schiavo degli ebrei? Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». Bocca è quello che nel ’43 denunciò l’industriale Paolo Berardi il quale, in uno scompartimento ferroviario nel quale sedeva anche il segretario del Guf Giorgio Bocca, ebbe la malaugurata idea di dire ad alcuni reduci dal fronte russo che la guerra era ormai perduta. Prima gli mollò un ceffone (eroismo che rievocò in seguito con un corsivo intitolato, fascisticamente, «La sberla... e la bestia») e quindi, giunto il treno alla stazione di Torino, lo consegnò all’Ovra in quando «disfattista». Bocca è quello che dopo l’8 settembre, solo dopo quella data, sia chiaro, si spogliò dell’orbace di «fascista integerrimo» per vestire i panni del partigiano. E in tal veste, a guerra finita, fu a capo di un tribunale del popolo che condannò a morte un ufficiale «collaborazionista» della Monterosa. Bocca è quello che nel febbraio del ’75 (nel pieno dell’«attacco al cuore dello Stato») scrisse un memorabile articolo intitolato: «L’eterna favola delle Brigate Rosse». Vi si leggeva: «A me queste Brigate rosse fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti cominciano a narrarla, mi viene come un’ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». E ancora: «Questa storia è penosa al punto da dimostrare il falso, il marcio che ci sta dietro: perché nessun militante di sinistra si comporterebbe, per libera scelta, in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra». Bocca è quello che firmò l’appello contro il commissario Calabresi («il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice... »).
E Bocca sarebbe quello dotato di dirittura morale inscalfibile? Quello che si permette - con quel metro di giudizio che si ritrova - di giudicare Bettino Craxi? Possiamo solo sperare che quest’ultima abbaiata non sia dettata dall’avvisaglia d’un qualche sonno della ragione, ma che trovi spiegazione nella «tigna» del vecchio montanaro, nel desiderio irrefrenabile di prendersi una ancorché tardiva rivalsa: mettere Craxi di nuca e porsi lui, Giorgio Bocca da Cuneo, di faccia. Sarebbe nel suo carattere.
«Un giornalista dotato di quel carisma ineguagliabile - si legge in una biografia - di quella dirittura morale inscalfibile» che lo fa, in tutto e per tutto, Venerato Maestro. Dirittura morale inscalfibile. Bocca è quello che firmò il «Manifesto della razza», quello che scrisse, nero su bianco: «A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere, in un tempo non lontano, essere schiavo degli ebrei? Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». Bocca è quello che nel ’43 denunciò l’industriale Paolo Berardi il quale, in uno scompartimento ferroviario nel quale sedeva anche il segretario del Guf Giorgio Bocca, ebbe la malaugurata idea di dire ad alcuni reduci dal fronte russo che la guerra era ormai perduta. Prima gli mollò un ceffone (eroismo che rievocò in seguito con un corsivo intitolato, fascisticamente, «La sberla... e la bestia») e quindi, giunto il treno alla stazione di Torino, lo consegnò all’Ovra in quando «disfattista». Bocca è quello che dopo l’8 settembre, solo dopo quella data, sia chiaro, si spogliò dell’orbace di «fascista integerrimo» per vestire i panni del partigiano. E in tal veste, a guerra finita, fu a capo di un tribunale del popolo che condannò a morte un ufficiale «collaborazionista» della Monterosa. Bocca è quello che nel febbraio del ’75 (nel pieno dell’«attacco al cuore dello Stato») scrisse un memorabile articolo intitolato: «L’eterna favola delle Brigate Rosse». Vi si leggeva: «A me queste Brigate rosse fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti cominciano a narrarla, mi viene come un’ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». E ancora: «Questa storia è penosa al punto da dimostrare il falso, il marcio che ci sta dietro: perché nessun militante di sinistra si comporterebbe, per libera scelta, in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra». Bocca è quello che firmò l’appello contro il commissario Calabresi («il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice... »).
E Bocca sarebbe quello dotato di dirittura morale inscalfibile? Quello che si permette - con quel metro di giudizio che si ritrova - di giudicare Bettino Craxi? Possiamo solo sperare che quest’ultima abbaiata non sia dettata dall’avvisaglia d’un qualche sonno della ragione, ma che trovi spiegazione nella «tigna» del vecchio montanaro, nel desiderio irrefrenabile di prendersi una ancorché tardiva rivalsa: mettere Craxi di nuca e porsi lui, Giorgio Bocca da Cuneo, di faccia. Sarebbe nel suo carattere.
«Il Giornale» del 4 gennaio 2010
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