Spesso dietro la retorica sugli «angioletti» si cela una realtà difficile di abusi e indifferenza
di Claudio Magris
Un tempo erano considerati «non persone», oggi l'emarginazione continua
Tutti gli uomini, proclama la dichiarazione americana del 1776, sono creati uguali e hanno il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità. Ma Calhoun - eminente uomo politico statunitense dell' Ottocento - ribatteva che non nascono uomini, bensì solo bambini, che potranno diventare uomini. Il bambino, non ancora in possesso dei requisiti fisici e intellettuali necessari a svolgere un ruolo sociale, non sarebbe dunque essere umano a pieno titolo. Il 29 dicembre 1881, il primo numero del «Piccolo», il quotidiano di Trieste, recava una piccola rubrica dal titolo «Rarità della specie», la quale comunicava compiaciuta che la vigilia di Natale era stata un giorno fortunato per la città, perché «non avemmo che un morto, diciamo uno, dell'età di 42 anni», aggiungendo frettolosamente: «e quattro bambini sotto i cinque». Il bambino dunque quale «pre persona», come dice il titolo di uno splendido racconto di Philip Dick, in cui si immagina un Paese nel quale è lecito interrompere la vita di un individuo (disabile, sgradito, comunque indesiderabile per gli altri e/o per se stesso) non sino a tre o più mesi di esistenza intrauterina, bensì sino a un certo numero di anni, fissato per legge. La figura del bambino è avvolta da un alone immaginario contraddittorio. Da un lato c' è, specie nei Paesi latini e forse particolarmente in Italia, una zuccherosa retorica sentimentale: il bambino come angioletto che commuove non solo quando va a pupù ma anche quando fa la pipì e la popò, vezzeggiato da genitori e nonni che ne imitano, con mossette bamboleggianti, le prime parole storpiate. L' infanzia non è dolciastra innocenza, proprio perché ognuno, in ogni fase - ancora debole o già declinante - della sua parabola è un essere umano nella pienezza dei suoi diritti e nell' oscura complessità delle sue pulsioni. A quell' oleografia sentimentaloide si contrappone un' imbarazzata difficoltà a fare i conti con la realtà del bambino; perfino in molti pur mirabili quadri che mostrano la Vergine con Gesù al seno quest' ultimo è talora goffo e sproporzionato, un adulto rattrappito più che un infante. Se qualcuno non è considerato un uomo a pieno titolo, se ne può fare quello che si vuole. Non solo l'infanzia, ma anche l' adolescenza è particolarmente esposta alla violenza, all' abuso, allo sfruttamento più infame, come dicono ogni giorno le cronache e le statistiche di tutto il mondo. Sui «minori» d' ogni genere si avventa la brutalità degli uomini e delle cose: la malvagità o l' indifferenza personale di singoli individui come l' oggettivo e spietato meccanismo dei processi sociali e delle disuguaglianze economiche; l' iniquo ordine (in verità disordine) del mondo spesso imposto dai potenti d' ogni sorta (Stati, classi sociali, forze politiche o economiche) ai deboli d' ogni tipo; la crisi (per quel che riguarda l' infanzia) di istituzioni quali la famiglia; calamità e devastazioni d' ogni grado. La sofferenza dei bambini è la più inaccettabile: anche se essa fosse il prezzo di una redenzione finale del mondo, dice Ivan Karamazov nel romanzo di Dostoevskji, il biglietto d'ingresso dell'umanità nel Paradiso, «io restituirei quel biglietto». Il disagio dei minori - bambini, ragazzi, adolescenti e le loro famiglie - ha molteplici cause ed aspetti; sembra crescere, fra le nuove generazioni, il numero di chi dubita di avere una reale possibilità, materiale e spirituale, di vita pervasa di significato. «Diamogli una chance» s' intitola appunto il convegno che si aprirà a Trieste domani, organizzato dall' Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive), dalla Caritas diocesana, dal Centro di aiuto alla vita, dalla Comunità di San Martino al Campo e da Linea Azzurra. Se Anfaa, Caritas e Linea Azzurra sono ben note, forse non lo sono altrettanto il Centro di aiuto alla vita e la Comunità di San Martino al Campo. Il primo si occupa specialmente, con intelligenza e spregiudicata carità, delle ragazze madri e delle donne incinte in difficoltà, senza interferire nelle loro decisioni ma aiutandole materialmente e psicologicamente, procurando a loro e ai loro figli assistenza e alloggio, cercando loro un lavoro e continuando a seguire la loro vita e quella dei loro figli negli anni, nella parabola della loro storia. La comunità di San Martino al Campo diretta da don Mario Vatta, uno che fa capire cosa possa significare la parola «fratello», si occupa soprattutto - ma non soltanto - di disagio giovanile e di tossicodipendenti, con un' accoglienza mai repressiva né ingenuamente buonista, ma coraggiosa ed efficace. Una volta gli ho detto, metà per scherzo: «Un tempo, voi preti non eravate sempre granché, nella battaglia per la concreta libertà degli uomini, anzi spesso eravate peggio di tanti altri, ed eravate tanti. Ora siete forse i migliori e siete così pochi, sempre meno». Il convegno - cui partecipano esperti di vari settori, dall' assistenza sanitaria ai servizi sociali al tribunale dei minorenni - si propone di analizzare, con specifico riferimento alla situazione triestina e regionale ma nel quadro globale di tale problematica, vari aspetti dell' emarginazione, della tutela dei minori, dei problemi connessi all' affidamento, della trasformazione dell' istituto famigliare, della dipendenza da alcool o droga e soprattutto dal nostro contesto culturale generale in cui nasce e prospera il disagio. Non è un caso che a Trieste sia sostanzialmente nata la riforma Basaglia e si sia sviluppata con particolare intensità, soprattutto per merito di Paolo Cendon, l' elaborazione di un diritto dei deboli. Combattere efficacemente un male significa conoscere e rimuovere le sue cause. A cominciare da quel pregiudizio che vede nel «minore» di ogni genere qualcuno che non è pienamente un uomo. Invece Cristo ha detto che siamo noi che dobbiamo diventare come bambini per possedere il Regno, ossia la pienezza di vita. Non ricordo chi fosse quel santo che, bambino, stava giocando felice, quando un parente trucemente pio gli chiese cosa avrebbe fatto se avesse saputo di dover morire dieci minuti dopo. Continuerei a giocare, rispose il bambino. Quel gioco è il modo più vero, più ricco di essere vivi.
«Corriere della Sera» del 19 gennaio 2010
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