Simboli ed identità: i dubbi dell'EuropaLe
di Riccardo Chiaberge
«La proposta di legge anti-burqa dimostra solo l'imbarazzo della classe politica francese: si fustiga il burqa senza proibirlo in modo assoluto. Il burqa è rifiutato dall'opinione pubblica, non c'è dubbio, ma su quale base giuridica lo si può vietare, se non per ragioni di sicurezza in luoghi specifici (poste, stazioni, eccetera)? Tanto più che le donne in burqa, spesso convertite di fresco, portano questo abito volontariamente, in modo ostentato, per provare la loro fede. Come si può considerare segno di schiavismo o di subordinazione un atto di fede, anche se ci appare esibizionistico? È il paradosso del burqa, che dà una maggiore visibilità proprio a ciò che vuole nascondere: la donna devota! Alla stessa stregua, come ai tempi della Rivoluzione francese, dovremmo proibire gli ordini contemplativi cattolici, dove uomini e donne credenti si rinchiudono per libera scelta in nome della fede?».
Un po' come i vostri vicini di casa della Badia, vero professore? Olivier Roy, sessant'anni, ha il sorriso pacioso di un abate, in perfetta sintonia con lo spirito del luogo: il Centro "Robert Schuman" dell'Istituto universitario europeo è in un antico convento domenicano sulla collina di Fiesole, e forse è proprio Domenico il santo affrescato sulla porta della cella-ufficio. Fuori, il sole di gennaio accarezza gli ulivi con un presagio di primavera. Da anni, in libri come Il fallimento dell'Islam politico, Global Muslim o La santa ignoranza, l'orientalista e politologo francese esplora i paradossi di un mondo dove secolarizzazione e fondamentalismo religioso si rincorrono e si alimentano a vicenda. «Non c'è contraddizione - spiega Roy -. La secolarizzazione funziona, prosegue la sua marcia anche in paesi di tradizione cattolica come l'Italia o la Spagna. Ma secolarizzazione non significa per forza laicità alla francese, cioè esclusione del fatto religioso dalla sfera pubblica. In una società secolarizzata, la religione non scompare: semmai si isola, e perde ogni legame con le proprie radici culturali. E in questo modo diventa più visibile e più intensa. La gente che oggi si accosta alla religione lo fa per cercare non una cultura, ma un'esperienza spirituale e/o un'identità, l'appartenenza a una comunità. Si entra in una setta, in una chiesa evangelica, non perché si è nati in un quartiere ma perché ci si identifica in un gruppo. Le stesse parrocchie cattoliche, almeno in Francia, non sono più entità territoriali ma comunità di fede. Ci sono movimenti, come Comunione e Liberazione in Italia, che esigono un'adesione totale e al tempo stesso diffidano del ritorno al politico. Si battono per i loro obiettivi, contro l'aborto o la fecondazione assistita, ma non vogliono una nuova Democrazia cristiana. Troppa politica per loro significa laicizzarsi, perdere l'essenziale del religioso. Su un piano diverso, anche i musulmani salafiti respingono l'idea di uno stato islamico, che rischia di annacquare la purezza della fede».
Ma è un altro lo spettro che si aggira per l'Europa di oggi, quello che campeggiava nei manifesti per il referendum contro i minareti in Svizzera: uno spettro femminile senza volto. Il burqa, appunto, è diventato il simbolo di un'alterità inquietante, che non si lascia omologare. Tra banlieue e Londonistan, la via francese dell'integrazione laica e quella del multiculturalismo all'inglese sono entrambe naufragate... «Proprio così - annuisce Roy -. Perché nessuno dei due ha capito che è saltato il nesso tra religione e cultura. In Francia, essere cittadino della République significa confinare la religione nel privato. Per gli inglesi, multiculturalismo e multiconfessionalismo sono la stessa cosa. Chi è musulmano è straniero per definizione. Questa identificazione, come ho detto, non regge più. Molti immigrati di seconda generazione dicono: io sono francese, e però sono anche musulmano. Non arabo! O viceversa: sono arabo, ma non musulmano. Ha sollevato un putiferio il sindaco di Marsiglia, Jean-Claude Gaudin, che dopo l'incontro di calcio Algeria-Egitto ha commentato: «Abbiamo visto 20mila musulmani invadere le strade della città, e nessuna bandiera francese!». E i tifosi, giustamente, gli hanno replicato: ma noi festeggiavamo come algerini, non come islamici!».
Il presidente Sarkozy aveva lanciato a suo tempo lo slogan della «laicità positiva»: un maggiore rispetto e attenzione al fatto religioso nella vita pubblica, inclusi i simboli come il velo. Ma, secondo Roy, ha fatto rapidamente macchina indietro: «Ora sta riprendendo tutte le idee della destra classica: rafforzamento dello Stato, diffidenza verso l'Islam, discorsi contro l'immigrazione, difesa dell'identità francese. Credo si tratti di puro calcolo politico. Ha capito che quella linea non gli faceva guadagnare consensi né a sinistra né a destra. La sinistra in Francia è tradizionalmente molto laica. E quanto alla destra, resta ancorata all'identità cristiana, la componente liberale è minoritaria».
Da Berna all'Aia, da Roma a Parigi, monta il pregiudizio anti-islamico, fomentato dalle minacce di al-Qaeda. «Ma perché facciamo guerra all'Islam? - si domanda Roy, capovolgendo il luogo comune secondo cui è l'Islam radicale, semmai, a farci la guerra. - Per una parte della sinistra, l'Islam va combattuto in nome della laicità, dei diritti dell'uomo e della parità tra i sessi. Ma sempre di più lo si fa in nome dell'identità cristiana. Perfino intellettuali come Max Gallo, un ex-gauchiste che adesso va in chiesa, anche se non crede in Dio, al solo scopo di sostenere la civiltà europea, proprio come la vecchia Action française di Maurras (che peraltro la Chiesa condannò nel 1926). La sinistra è in un'impasse. Non ha saputo concepire un discorso di libertà sul problema religioso. Chiede solo di proibire il velo. E finisce così per allinearsi alla destra cristiana. Ma come conciliare il matrimonio gay e l'identità cristiana dell'Europa? C'è anche una sinistra terzomondista, specialmente in Inghilterra, che simpatizza con l'Islam in quanto strumento di riscatto degli oppressi, ma in tal modo giustifica i fondamentalisti».
Roy mi mostra la copertina di un libro appena uscito in Turchia: Osama Bin Laden, il Che Guevara d'Oriente, con le due icone sovrapposte in un collage surreale, che fa rabbrividire. «Il paragone non sta in piedi. Ma è la prova migliore che l'estrema sinistra, orfana del comunismo, subisce oggi il fascino dei movimenti radicali islamici».
Hanno ragione allora quelli che vorrebbero arginare "l'invasione" musulmana, vietando la costruzione di nuove moschee, vivaio di futuri terroristi? «Assurdo. L'immigrazione avverrà con o senza moschee. E la libertà religiosa è uno dei fondamenti della cultura politica europea. Si facciano dei minareti in stile svizzero, delle moschee all'occidentale, moderne. Ma non si chieda agli immigrati di convertirsi o di rinnegare la loro fede».
Un po' come i vostri vicini di casa della Badia, vero professore? Olivier Roy, sessant'anni, ha il sorriso pacioso di un abate, in perfetta sintonia con lo spirito del luogo: il Centro "Robert Schuman" dell'Istituto universitario europeo è in un antico convento domenicano sulla collina di Fiesole, e forse è proprio Domenico il santo affrescato sulla porta della cella-ufficio. Fuori, il sole di gennaio accarezza gli ulivi con un presagio di primavera. Da anni, in libri come Il fallimento dell'Islam politico, Global Muslim o La santa ignoranza, l'orientalista e politologo francese esplora i paradossi di un mondo dove secolarizzazione e fondamentalismo religioso si rincorrono e si alimentano a vicenda. «Non c'è contraddizione - spiega Roy -. La secolarizzazione funziona, prosegue la sua marcia anche in paesi di tradizione cattolica come l'Italia o la Spagna. Ma secolarizzazione non significa per forza laicità alla francese, cioè esclusione del fatto religioso dalla sfera pubblica. In una società secolarizzata, la religione non scompare: semmai si isola, e perde ogni legame con le proprie radici culturali. E in questo modo diventa più visibile e più intensa. La gente che oggi si accosta alla religione lo fa per cercare non una cultura, ma un'esperienza spirituale e/o un'identità, l'appartenenza a una comunità. Si entra in una setta, in una chiesa evangelica, non perché si è nati in un quartiere ma perché ci si identifica in un gruppo. Le stesse parrocchie cattoliche, almeno in Francia, non sono più entità territoriali ma comunità di fede. Ci sono movimenti, come Comunione e Liberazione in Italia, che esigono un'adesione totale e al tempo stesso diffidano del ritorno al politico. Si battono per i loro obiettivi, contro l'aborto o la fecondazione assistita, ma non vogliono una nuova Democrazia cristiana. Troppa politica per loro significa laicizzarsi, perdere l'essenziale del religioso. Su un piano diverso, anche i musulmani salafiti respingono l'idea di uno stato islamico, che rischia di annacquare la purezza della fede».
Ma è un altro lo spettro che si aggira per l'Europa di oggi, quello che campeggiava nei manifesti per il referendum contro i minareti in Svizzera: uno spettro femminile senza volto. Il burqa, appunto, è diventato il simbolo di un'alterità inquietante, che non si lascia omologare. Tra banlieue e Londonistan, la via francese dell'integrazione laica e quella del multiculturalismo all'inglese sono entrambe naufragate... «Proprio così - annuisce Roy -. Perché nessuno dei due ha capito che è saltato il nesso tra religione e cultura. In Francia, essere cittadino della République significa confinare la religione nel privato. Per gli inglesi, multiculturalismo e multiconfessionalismo sono la stessa cosa. Chi è musulmano è straniero per definizione. Questa identificazione, come ho detto, non regge più. Molti immigrati di seconda generazione dicono: io sono francese, e però sono anche musulmano. Non arabo! O viceversa: sono arabo, ma non musulmano. Ha sollevato un putiferio il sindaco di Marsiglia, Jean-Claude Gaudin, che dopo l'incontro di calcio Algeria-Egitto ha commentato: «Abbiamo visto 20mila musulmani invadere le strade della città, e nessuna bandiera francese!». E i tifosi, giustamente, gli hanno replicato: ma noi festeggiavamo come algerini, non come islamici!».
Il presidente Sarkozy aveva lanciato a suo tempo lo slogan della «laicità positiva»: un maggiore rispetto e attenzione al fatto religioso nella vita pubblica, inclusi i simboli come il velo. Ma, secondo Roy, ha fatto rapidamente macchina indietro: «Ora sta riprendendo tutte le idee della destra classica: rafforzamento dello Stato, diffidenza verso l'Islam, discorsi contro l'immigrazione, difesa dell'identità francese. Credo si tratti di puro calcolo politico. Ha capito che quella linea non gli faceva guadagnare consensi né a sinistra né a destra. La sinistra in Francia è tradizionalmente molto laica. E quanto alla destra, resta ancorata all'identità cristiana, la componente liberale è minoritaria».
Da Berna all'Aia, da Roma a Parigi, monta il pregiudizio anti-islamico, fomentato dalle minacce di al-Qaeda. «Ma perché facciamo guerra all'Islam? - si domanda Roy, capovolgendo il luogo comune secondo cui è l'Islam radicale, semmai, a farci la guerra. - Per una parte della sinistra, l'Islam va combattuto in nome della laicità, dei diritti dell'uomo e della parità tra i sessi. Ma sempre di più lo si fa in nome dell'identità cristiana. Perfino intellettuali come Max Gallo, un ex-gauchiste che adesso va in chiesa, anche se non crede in Dio, al solo scopo di sostenere la civiltà europea, proprio come la vecchia Action française di Maurras (che peraltro la Chiesa condannò nel 1926). La sinistra è in un'impasse. Non ha saputo concepire un discorso di libertà sul problema religioso. Chiede solo di proibire il velo. E finisce così per allinearsi alla destra cristiana. Ma come conciliare il matrimonio gay e l'identità cristiana dell'Europa? C'è anche una sinistra terzomondista, specialmente in Inghilterra, che simpatizza con l'Islam in quanto strumento di riscatto degli oppressi, ma in tal modo giustifica i fondamentalisti».
Roy mi mostra la copertina di un libro appena uscito in Turchia: Osama Bin Laden, il Che Guevara d'Oriente, con le due icone sovrapposte in un collage surreale, che fa rabbrividire. «Il paragone non sta in piedi. Ma è la prova migliore che l'estrema sinistra, orfana del comunismo, subisce oggi il fascino dei movimenti radicali islamici».
Hanno ragione allora quelli che vorrebbero arginare "l'invasione" musulmana, vietando la costruzione di nuove moschee, vivaio di futuri terroristi? «Assurdo. L'immigrazione avverrà con o senza moschee. E la libertà religiosa è uno dei fondamenti della cultura politica europea. Si facciano dei minareti in stile svizzero, delle moschee all'occidentale, moderne. Ma non si chieda agli immigrati di convertirsi o di rinnegare la loro fede».
«Il Sole 24 Ore» del 30 gennaio 2010
Nessun commento:
Posta un commento