Sperimentare nuovi farmaci un «lavoro» da tempi di crisi
di Lucia Capuzzi
Negli Usa in aumento i volontari a pagamento in laboratorio. Con crescita dei rischi e un peggioramento della qualità. In Italia norme assai più rigorose
«Ero uno squattrinato studente universitario. Poi, ho scoperto un modo per riuscire a pagarmi le spese e anche qualche extra. Quale? Semplice, donare regolarmente il sangue». È cominciata in questo modo la 'carriera' di Phil Maher, «donatore professionista ». Così si autodefinisce il trentaduenne sul suo sito (www.bloodbanker.com). Una sacca viene ricompensata con 40 dollari. Con due alla settimana – di più la salute non consente – a fine mese si ha un incasso fisso di 320 dollari. Non è tanto, ma per le oltre sette milioni e mezzo di vittime della crisi economica negli Stati Uniti (dove il sangue viene 'pagato', a differenza dell’Europa), è pur sempre un aiuto. Non a caso, nell’ultimo anno, la pagina Web di Maher ha raddoppiato i contatti.
Niente, però, a confronto con le migliaia e migliaia di richieste che inondano il sito di Paul Clough, www.jalr.com.Perché, mentre di donazioni non si vive, qui i sempre più numerosi disoccupati possono trovare consigli per costruirsi 'un’occupazione alternativa': quella di lab rat . Che consiste – come spiega Clough – nel prestare il proprio corpo alla scienza traendone il massimo profitto. Fino a farlo diventare un lavoro a tempo pieno. I lab rat – o guinea pigs come dicono altri – (letteralmente, 'cavie') sono i 'volontari sani' che sperimentano su se stessi un farmaco, prima che questo sia messo in commercio.
È la cosiddetta 'fase uno', la prima tappa del lungo viaggio dei medicinali dal laboratorio al banco della farmacia. Ogni medicamento deve superare vari passaggi: sperimentazione su animali, su individui sani, su un campione selezionato di malati. Questi ultimi si sottopongono con facilità ai test nella speranza che venga trovata una cura per alleviare le loro sofferenze. I cittadini in salute, invece, sono più restii. Gli esami sono sicuri – il protocollo, prima di passare all’uomo, è rigoroso – ma richiedono tempo e implicano un certo fastidio. Per incentivarli, così, viene riconosciuto loro un compenso. Una sorta di bonus per ammortizzare gli inconvenienti di prelievi di sangue, degenze in ospedale, lievi effetti collaterali. Negli ultimi tempi, però, i colossi del farmaco Usa – per attrarre più volontari, mandare avanti le sperimentazioni e, dunque, immettere nuovi remunerativi medicinali sul mercato – hanno aumentato le 'retribuzioni' Secondo una recente inchiesta della rivista New Scientist, si può arrivare fino a 300 dollari al giorno, per un totale di 34mila dollari l’anno, quanto un impiego di medio livello in una società. Non solo. Spesso alcune aziende ricorrono a incentivi aggiuntivi. Per testare una medicina contro i disturbi intestinali legati al viaggio, ad esempio, l’Intercell ha, di recente, offerto ai volontari una vacanza in Messico o Guatemala. Ai selezionati è stata proposta una partenza per il Sud America, a godersi il sole. Unica condizione: assumere, prima di viaggiare, il farmaco da sperimentare e sottoporsi, durante il soggiorno, a regolari prelievi di sangue nella clinica indicata. Compensi e regalie sono una calamita potentissima per chi è alla disperata ricerca di danaro. Come immigrati, carcerati, senza tetto. A cui, da oltre un anno, hanno cominciato ad aggiungersi coloro a cui la recessione ha mandato in fumo i sogni e le occupazioni. Sono diecimila secondo Clough gli americani che si guadagnano da vivere in questo modo. Ma, in base a stime di vari istituti di ricerca, potrebbero essere almeno il doppio. E il loro numero aumenterebbe di pari passo con il peggioramento della situazione economica. Il picco massimo si sarebbe avuto tra la primavera e l’inizio dell’estate.
Il fenomeno, però, mette gli americani di fronte a un duplice dilemma: etico e sanitario. Il peso della sperimentazione ricade sulle categorie sociali più deboli che diventano 'cavie' per necessità e non per libera scelta. Oltre che ingiusto, questo è pericoloso. Perché chi si sottopone ai test solo per mantenersi, spesso, non rispetta le regole di sicurezza. Ovvero, non osserva il periodo di pausa obbligatoria tra uno studio e l’altro, il cosiddetto 'wash-out' – che dura in genere un mese –, mettendo a rischio sia la validità della sperimentazione sia la sua salute. Altri, invece, non dichiarano i reali effetti collaterali che un farmaco produce per paura che la sperimentazione venga interrotta e il compenso ridotto. Secondo l’associazione Citizens for responsible care and research, tra il 1990 e il 2000, sono stati denunciate 386 reazioni avverse causate da medicinali durante le sperimentazioni. Una cifra minima, che contrasta con gli effetti collaterali registrati dalla Food and Drug Administration relativi ai farmaci di nuova approvazione. Nello stesso periodo, se ne sono contati oltre 17mila all’anno, di cui 800 gravi.
«Sono i rischi che si possono correre se il movente economico diventa l’unica ragione per sottoporsi ai test – dichiara Antonio Spagnolo, direttore dell’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica di Roma –. Ecco perché in Italia si cerca di puntare sulla responsabilizzazione dei volontari. Chi sceglie di testare su di sé un farmaco dovrebbe farlo avendo compreso il valore sociale del suo gesto ». Anche per questo, da noi, i compensi sono relativamente bassi: poche centinaia di euro. Esiste, inoltre, un rigido controllo da parte dei comitati etici». Si tratta di organismi indipendenti che valutano i protocolli di sperimentazione. Fino al 1997, potevano operare anche all’interno delle case farmaceutiche, ma con componenti esterni, a garanzia della loro indipendenza di giudizio, Ora, la legge, in accordo con una direttiva europea, stabilisce che i Comitati etici siano istituiti e operanti all’interno di una struttura pubblica e, dunque,si trovano all’interno della Asl di competenza dell’azienda farmaceutica.
«Negli anni Novanta ho fatto parte di un comitato etico di una grossa azienda e posso assicurare che non ho mai subito pressioni di nessun genere», aggiunge Spagnolo. Anche negli Stati Uniti esistono comitati etici. Quello che manca – denuncia l’inchiesta di New Scientist – sarebbe, però, una certificazione statale sulla selezione dei loro componenti e un vero controllo sull’operato svolto. Le strutture funzionano come società private chiamate dalle case farmaceutiche a pronunciarsi, dietro legale compenso, sui test che intendono fare. Il loro guadagno, dunque, dipenderebbe dalle stesse aziende che dovrebbero controllare. Difficile ipotizzare una effettiva libertà di giudizio.
Niente, però, a confronto con le migliaia e migliaia di richieste che inondano il sito di Paul Clough, www.jalr.com.Perché, mentre di donazioni non si vive, qui i sempre più numerosi disoccupati possono trovare consigli per costruirsi 'un’occupazione alternativa': quella di lab rat . Che consiste – come spiega Clough – nel prestare il proprio corpo alla scienza traendone il massimo profitto. Fino a farlo diventare un lavoro a tempo pieno. I lab rat – o guinea pigs come dicono altri – (letteralmente, 'cavie') sono i 'volontari sani' che sperimentano su se stessi un farmaco, prima che questo sia messo in commercio.
È la cosiddetta 'fase uno', la prima tappa del lungo viaggio dei medicinali dal laboratorio al banco della farmacia. Ogni medicamento deve superare vari passaggi: sperimentazione su animali, su individui sani, su un campione selezionato di malati. Questi ultimi si sottopongono con facilità ai test nella speranza che venga trovata una cura per alleviare le loro sofferenze. I cittadini in salute, invece, sono più restii. Gli esami sono sicuri – il protocollo, prima di passare all’uomo, è rigoroso – ma richiedono tempo e implicano un certo fastidio. Per incentivarli, così, viene riconosciuto loro un compenso. Una sorta di bonus per ammortizzare gli inconvenienti di prelievi di sangue, degenze in ospedale, lievi effetti collaterali. Negli ultimi tempi, però, i colossi del farmaco Usa – per attrarre più volontari, mandare avanti le sperimentazioni e, dunque, immettere nuovi remunerativi medicinali sul mercato – hanno aumentato le 'retribuzioni' Secondo una recente inchiesta della rivista New Scientist, si può arrivare fino a 300 dollari al giorno, per un totale di 34mila dollari l’anno, quanto un impiego di medio livello in una società. Non solo. Spesso alcune aziende ricorrono a incentivi aggiuntivi. Per testare una medicina contro i disturbi intestinali legati al viaggio, ad esempio, l’Intercell ha, di recente, offerto ai volontari una vacanza in Messico o Guatemala. Ai selezionati è stata proposta una partenza per il Sud America, a godersi il sole. Unica condizione: assumere, prima di viaggiare, il farmaco da sperimentare e sottoporsi, durante il soggiorno, a regolari prelievi di sangue nella clinica indicata. Compensi e regalie sono una calamita potentissima per chi è alla disperata ricerca di danaro. Come immigrati, carcerati, senza tetto. A cui, da oltre un anno, hanno cominciato ad aggiungersi coloro a cui la recessione ha mandato in fumo i sogni e le occupazioni. Sono diecimila secondo Clough gli americani che si guadagnano da vivere in questo modo. Ma, in base a stime di vari istituti di ricerca, potrebbero essere almeno il doppio. E il loro numero aumenterebbe di pari passo con il peggioramento della situazione economica. Il picco massimo si sarebbe avuto tra la primavera e l’inizio dell’estate.
Il fenomeno, però, mette gli americani di fronte a un duplice dilemma: etico e sanitario. Il peso della sperimentazione ricade sulle categorie sociali più deboli che diventano 'cavie' per necessità e non per libera scelta. Oltre che ingiusto, questo è pericoloso. Perché chi si sottopone ai test solo per mantenersi, spesso, non rispetta le regole di sicurezza. Ovvero, non osserva il periodo di pausa obbligatoria tra uno studio e l’altro, il cosiddetto 'wash-out' – che dura in genere un mese –, mettendo a rischio sia la validità della sperimentazione sia la sua salute. Altri, invece, non dichiarano i reali effetti collaterali che un farmaco produce per paura che la sperimentazione venga interrotta e il compenso ridotto. Secondo l’associazione Citizens for responsible care and research, tra il 1990 e il 2000, sono stati denunciate 386 reazioni avverse causate da medicinali durante le sperimentazioni. Una cifra minima, che contrasta con gli effetti collaterali registrati dalla Food and Drug Administration relativi ai farmaci di nuova approvazione. Nello stesso periodo, se ne sono contati oltre 17mila all’anno, di cui 800 gravi.
«Sono i rischi che si possono correre se il movente economico diventa l’unica ragione per sottoporsi ai test – dichiara Antonio Spagnolo, direttore dell’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica di Roma –. Ecco perché in Italia si cerca di puntare sulla responsabilizzazione dei volontari. Chi sceglie di testare su di sé un farmaco dovrebbe farlo avendo compreso il valore sociale del suo gesto ». Anche per questo, da noi, i compensi sono relativamente bassi: poche centinaia di euro. Esiste, inoltre, un rigido controllo da parte dei comitati etici». Si tratta di organismi indipendenti che valutano i protocolli di sperimentazione. Fino al 1997, potevano operare anche all’interno delle case farmaceutiche, ma con componenti esterni, a garanzia della loro indipendenza di giudizio, Ora, la legge, in accordo con una direttiva europea, stabilisce che i Comitati etici siano istituiti e operanti all’interno di una struttura pubblica e, dunque,si trovano all’interno della Asl di competenza dell’azienda farmaceutica.
«Negli anni Novanta ho fatto parte di un comitato etico di una grossa azienda e posso assicurare che non ho mai subito pressioni di nessun genere», aggiunge Spagnolo. Anche negli Stati Uniti esistono comitati etici. Quello che manca – denuncia l’inchiesta di New Scientist – sarebbe, però, una certificazione statale sulla selezione dei loro componenti e un vero controllo sull’operato svolto. Le strutture funzionano come società private chiamate dalle case farmaceutiche a pronunciarsi, dietro legale compenso, sui test che intendono fare. Il loro guadagno, dunque, dipenderebbe dalle stesse aziende che dovrebbero controllare. Difficile ipotizzare una effettiva libertà di giudizio.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010
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