di Pietro Gibellini
Vent’anni fa moriva a Domodossola il più originale filologo e geniale critico del nostro Novecento: Gianfranco Contini. Il 4 febbraio gli dedica una giornata di studio il Collegio Ghislieri, di cui Contini fu alunno quando studiò all’università di Pavia, allora per lui deludente (solo più tardi avrebbe acquistato smalto grazie a suoi allievi diretti o elettivi: Dante Isella, Maria Corti, Cesare Segre). Al centro dell’incontro il «Carteggio» con Gadda, fresco di stampa per le cure postume di Isella (Garzanti). La morte di un personaggio della cultura comporta un tunnel di oblìo, da cui fuoriescono quelli che hanno lasciato dietro sé vera eredità di fosforo e affetti. Per Contini il tunnel non c’è stato, anche se non mancò allora il codardo oltraggio di qualche giovane critico rampante e non manca oggi, in qualche vecchio concorrente, il livido color della pietraia. Alle riedizioni degli scritti critici, alla raccolta degli studi filologici e dei ritratti di amici si sono aggiunte le lettere: con Montale, Cecchi, Pizzuto, Sinigaglia, Capitini (e ad altre corrispondenze si sta lavorando). Né sono mancati convegni per valutare il suo rapporto con Croce e per onorare il suo magistero italiano e prima elvetico. Folgorante, quest’ultimo, per discepoli quali Dante Isella, padre Giovanni Pozzi, Giorgio Orelli, Luciano Erba: come dire per svizzeri e fuoriusciti italiani, per studiosi e poeti. Un segno, questo, della doppia corda di Contini, della compresenza in lui di rigore filologico e di passione letteraria, di «diligenza» e di «voluttà». Due sentieri paralleli? Direi piuttosto intrecciati, ma parimenti creativi. Contini aveva il dono, davvero raro, di leggere i classici con la calda prossimità di chi li sente contemporanei («vere presenze», per dirla con il suo amico George Steiner) e di scrutare nei contemporanei l’emergere di un nuovo classico (nel senso valoriale che egli dava al termine, che poteva calzare benissimo all’espressionista e anticlassico Gadda come al noetico Montale, al viscerale prosatore della «Cognizione» come al controllatissimo poeta delle «Occasioni»).
Sperimentalmente creativa è la sua filologia «di tradizione», dalla tesi sul piccolo Dante lombardo alias Bonvesin de la Riva (e già ne discorreva con Cecchi) all’edizione del «Fiore» attribuito all’altro Dante, quello vero, il suo autore prediletto.
Innovativa la filologia «d’autore», attraverso cui creò, con la critica delle varianti, un modo nuovo di vedere i testi dalla parte dell’autore, e inventò uno strutturalismo storicista, incrociando sincronia e diacronia (altro che critique génétique!). Fu scopritore di talenti (dal neolaureato Pasolini al pensionato Pizzuto) e guida socratica di più maturi amici (Montale, Gadda) cui insegnò a riconoscere il sé più autentico.
Chi lo conobbe non può dimenticare la sua calda umanità, fatta di scatti indignati con gli arroganti e di attenzioni generose per gli umili. I sessantottini lo credevano impolitico: non stupisce che, ministro nella Repubblica dell’Ossola, vicino al Partito d’azione e all’irenismo di Capitini, Contini si sia poi tenuto alla larga dalla politica, mosso da istanze etiche e teoretiche. Sapeva che la «comunione dei santi» non è troppo affollata, fra gli uomini di lettere. La ricchezza della sua lezione attende ancora di essere approfondita per lo spessore ermeneutico e la tensione eticoconoscitiva: studiare un testo è, per lui, scoprire la verità di un’anima, non solo una grammatica della forma.
Sperimentalmente creativa è la sua filologia «di tradizione», dalla tesi sul piccolo Dante lombardo alias Bonvesin de la Riva (e già ne discorreva con Cecchi) all’edizione del «Fiore» attribuito all’altro Dante, quello vero, il suo autore prediletto.
Innovativa la filologia «d’autore», attraverso cui creò, con la critica delle varianti, un modo nuovo di vedere i testi dalla parte dell’autore, e inventò uno strutturalismo storicista, incrociando sincronia e diacronia (altro che critique génétique!). Fu scopritore di talenti (dal neolaureato Pasolini al pensionato Pizzuto) e guida socratica di più maturi amici (Montale, Gadda) cui insegnò a riconoscere il sé più autentico.
Chi lo conobbe non può dimenticare la sua calda umanità, fatta di scatti indignati con gli arroganti e di attenzioni generose per gli umili. I sessantottini lo credevano impolitico: non stupisce che, ministro nella Repubblica dell’Ossola, vicino al Partito d’azione e all’irenismo di Capitini, Contini si sia poi tenuto alla larga dalla politica, mosso da istanze etiche e teoretiche. Sapeva che la «comunione dei santi» non è troppo affollata, fra gli uomini di lettere. La ricchezza della sua lezione attende ancora di essere approfondita per lo spessore ermeneutico e la tensione eticoconoscitiva: studiare un testo è, per lui, scoprire la verità di un’anima, non solo una grammatica della forma.
«Avvenire» del 30 gennaio 2010
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